Domani sul Foglio la difesa della nutella di Mariarosa Mancuso
di Maurizio Stefanini
Ambasciator non "spalma" pene
Si diceva una volta che la patria si difende anche facendo la guardia a un bidone di benzina. A 79 anni ormai suonati e a 10 dalla pensione, il messinese Francesco Paolo Fulci continua a difenderla combattendo per la nutella, dopo averle già dato una storica vittoria nella battaglia del caffè. Perché l’attuale vicepresidente della Ferrero, quello che ha scatenato la stampa italiana sulla “camicia di forza” che l’Ue vorrebbe porre alla pubblicità dei prodotti con oltre il 10 per cento di grasso, è lo stesso diplomatico che da rappresentante permanente dell’Italia alle Nazioni Unite tra 1993 e 1999 affondò la proposta di riforma del Consiglio di Sicurezza che ci avrebbe declassati definitivamente.
Allora il problema era l’idea dell’Amministrazione Clinton di ammettere Germania, Giappone, India, Brasile e un Paese africano da scegliere tra Sudafrica e Nigeria come membri permanenti al Consiglio di Sicurezza, sia pure senza diritto di voto. Due gli obiettivi: da una parte, accrescere l’autorevolezza e la rappresentatività dell’Onu, in un momento in cui gli Stati Uniti pensavano effettivamente di porla al centro del Nuovo Ordine Mondiale; dall’altra, giustificare una richiesta di maggior contribuzione alla stessa Onu di Giappone e Germania, a sollievo del contribuente americano. Il guaio è che a quel punto l’Italia si sarebbe trovata come il più grande contribuente Onu senza seggio permanente, e anche il più grande Paese Ue nella stessa condizione. Senza contare il rischio di svuotamento del G-7, direttorio mondiale in cui invece eravamo ammessi.
Ma non solo l’Italia si trovava in quelle condizioni. Anche il Pakistan guardava con analoghi sentimenti la possibile promozione dell’India; e l’Egitto di Nigeria o Sudafrica; e il Messico del Brasile. Fulci riunì tutti i loro ambasciatori il Palazzo di Vetro appunto attorno a un caffè: da cui il nome di Coffee Club.
E quella lobby riuscì ad armare appunto la battaglia che bloccò la riforma. Fulci fu insomma l’uomo che sconfisse Madeleine Albright, cui infatti una volta a una sua raffica di istruzioni aveva ribattuto: “Sono l’ambasciatore d’Italia, non un sergente dei marines”. Ma lei alla fine apprezzò le doti del suo grande avversario, al punto da fargli una dedica che tuttora Fulci esibisce nel suo studio: “Your diplomacy is legend”. Una “leggenda” che dopo la pensione non si è ritirato nel suo orticello, ma è passato all’impresa privata. Da dove però continua a lottare per quelli che ritiene gli interessi italiani, contro burocrazie sovrannazionali che troppo spesso considerano il nostro Paese un’anomalia da razionalizzare. O è la scarsità di personaggi alla Fulci che gli consente di farlo?
Allora il problema era l’idea dell’Amministrazione Clinton di ammettere Germania, Giappone, India, Brasile e un Paese africano da scegliere tra Sudafrica e Nigeria come membri permanenti al Consiglio di Sicurezza, sia pure senza diritto di voto. Due gli obiettivi: da una parte, accrescere l’autorevolezza e la rappresentatività dell’Onu, in un momento in cui gli Stati Uniti pensavano effettivamente di porla al centro del Nuovo Ordine Mondiale; dall’altra, giustificare una richiesta di maggior contribuzione alla stessa Onu di Giappone e Germania, a sollievo del contribuente americano. Il guaio è che a quel punto l’Italia si sarebbe trovata come il più grande contribuente Onu senza seggio permanente, e anche il più grande Paese Ue nella stessa condizione. Senza contare il rischio di svuotamento del G-7, direttorio mondiale in cui invece eravamo ammessi.
Ma non solo l’Italia si trovava in quelle condizioni. Anche il Pakistan guardava con analoghi sentimenti la possibile promozione dell’India; e l’Egitto di Nigeria o Sudafrica; e il Messico del Brasile. Fulci riunì tutti i loro ambasciatori il Palazzo di Vetro appunto attorno a un caffè: da cui il nome di Coffee Club.
E quella lobby riuscì ad armare appunto la battaglia che bloccò la riforma. Fulci fu insomma l’uomo che sconfisse Madeleine Albright, cui infatti una volta a una sua raffica di istruzioni aveva ribattuto: “Sono l’ambasciatore d’Italia, non un sergente dei marines”. Ma lei alla fine apprezzò le doti del suo grande avversario, al punto da fargli una dedica che tuttora Fulci esibisce nel suo studio: “Your diplomacy is legend”. Una “leggenda” che dopo la pensione non si è ritirato nel suo orticello, ma è passato all’impresa privata. Da dove però continua a lottare per quelli che ritiene gli interessi italiani, contro burocrazie sovrannazionali che troppo spesso considerano il nostro Paese un’anomalia da razionalizzare. O è la scarsità di personaggi alla Fulci che gli consente di farlo?
«Il Foglio» del 17 giugno 2010
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