Lo psicologo Massone: ci sono tre categorie, sociali, problematici e compulsivi
di Antonio Giorgi
«Quando si affrontano queste tematiche bisogna evitare di cadere nelle semplificazione. Ogni giocatore è diverso dall’altro, ogni problema va trattato tenendo conto della personalità del soggetto. Non esiste una ricetta buona per tutti». Giuseppe Massone, milanese, è psicologo e psicoterapeuta. Di 'malati' di gioco che gli chiedono aiuto ne incontra spesso, ultimo caso in ordine di tempo quello di una signora che arrivava a bruciare in poche ore il suo stipendio mensile mettendo seriamente a rischio l’equilibrio familiare. «Non con il poker o le puntate alle scommesse clandestine, però. La signora era una habitué del banalissimo gratta e vinci. La sua smania di scoprire cosa si nascondesse in ogni biglietto acquistato era una vera ossessione, una patologia».
Per fortuna non tutti approdano a questi limiti estremi della febbre da gioco. O no?
Chiaro che no. Direi che possiamo individuare tre categorie: i giocatori sociali (giocano per stare con gli altri, per socializzare), i giocatori problematici (quelli che cominciano a perdere il contatto con la realtà che li circonda) e infine i patologici. Questi ultimi sono affascinati, incantati dal rischio e pensano di essere in grado di dominare gli eventi, al di sopra e al fuori di ogni calcolo delle probabilità. Sono malati, e sono sempre più numerosi. Sono circa il 3 per cento.
Dei giocatori o degli italiani?
Degli italiani. La patologia del gioco contagia almeno un milione e 800mila soggetti, visto che siamo ormai sui 60 milioni. Preoccupa la crescita del numero delle donne attratte dal bingo, dal poker e da tutto il resto. Siamo di fronte al dilagare di quello che chiamiamo disturbo ossessivo-compulsivo.
Generato da che cosa? Cioè, qual è la genesi della patologia?
La molla scatenante è spesso la smania del volere tutto e subito, dimenticando che ogni traguardo richiede fatica e impegno. Si sfida la fortuna e ci si rovina. Oggi poi la categoria dei giocatori sociali (banalmente, quelli che giocano a carte al bar, che stanno con gli altri, che dialogano e si incontrano) è messa a rischio dalla diffusione delle macchinette e dei giochi on line da casa propria. Si agisce da soli, in privato, e sempre da soli ci si caccia in un vicolo cieco. Il controllo sociale non c’è più.
Si può fare ancora qualcosa, correre ai ripari, mettere un argine al dilagare di pratiche devastanti?
Informazione corretta, sensibilizzazione sui rischi, educazione dei giovani ad un gioco responsabile (perché si può giocare responsabilmente) sono le mosse da privilegiare. Certo che quando il comportamento patologico si è affermato...
Intende dire che a quel punto non resta nulla da fare?
Questo no. I gruppi di auto aiuto possono dare un mano. Ci sono cliniche dove ci si può 'disintossicare' dal vizio, anche se spesso una volta dimessi la ricaduta è inevitabile. Punterei soprattutto sui gruppi di auto aiuto, sull’esempio degli alcolisti anonimi. Per i più giovani serve sì formazione, ma anche la sana pratica della proibizione. Purtroppo oggi le macchinette sono dappertutto.
Lo specialista in concreto cosa deve fare?
Di fronte a disturbi ossessivi-compulsivi deve intervenire uno psicologo del comportamento che sappia andare a fondo valutando la personalità e il pregresso del soggetto invece di limitarsi a curare un certo sintomo.
Per fortuna non tutti approdano a questi limiti estremi della febbre da gioco. O no?
Chiaro che no. Direi che possiamo individuare tre categorie: i giocatori sociali (giocano per stare con gli altri, per socializzare), i giocatori problematici (quelli che cominciano a perdere il contatto con la realtà che li circonda) e infine i patologici. Questi ultimi sono affascinati, incantati dal rischio e pensano di essere in grado di dominare gli eventi, al di sopra e al fuori di ogni calcolo delle probabilità. Sono malati, e sono sempre più numerosi. Sono circa il 3 per cento.
Dei giocatori o degli italiani?
Degli italiani. La patologia del gioco contagia almeno un milione e 800mila soggetti, visto che siamo ormai sui 60 milioni. Preoccupa la crescita del numero delle donne attratte dal bingo, dal poker e da tutto il resto. Siamo di fronte al dilagare di quello che chiamiamo disturbo ossessivo-compulsivo.
Generato da che cosa? Cioè, qual è la genesi della patologia?
La molla scatenante è spesso la smania del volere tutto e subito, dimenticando che ogni traguardo richiede fatica e impegno. Si sfida la fortuna e ci si rovina. Oggi poi la categoria dei giocatori sociali (banalmente, quelli che giocano a carte al bar, che stanno con gli altri, che dialogano e si incontrano) è messa a rischio dalla diffusione delle macchinette e dei giochi on line da casa propria. Si agisce da soli, in privato, e sempre da soli ci si caccia in un vicolo cieco. Il controllo sociale non c’è più.
Si può fare ancora qualcosa, correre ai ripari, mettere un argine al dilagare di pratiche devastanti?
Informazione corretta, sensibilizzazione sui rischi, educazione dei giovani ad un gioco responsabile (perché si può giocare responsabilmente) sono le mosse da privilegiare. Certo che quando il comportamento patologico si è affermato...
Intende dire che a quel punto non resta nulla da fare?
Questo no. I gruppi di auto aiuto possono dare un mano. Ci sono cliniche dove ci si può 'disintossicare' dal vizio, anche se spesso una volta dimessi la ricaduta è inevitabile. Punterei soprattutto sui gruppi di auto aiuto, sull’esempio degli alcolisti anonimi. Per i più giovani serve sì formazione, ma anche la sana pratica della proibizione. Purtroppo oggi le macchinette sono dappertutto.
Lo specialista in concreto cosa deve fare?
Di fronte a disturbi ossessivi-compulsivi deve intervenire uno psicologo del comportamento che sappia andare a fondo valutando la personalità e il pregresso del soggetto invece di limitarsi a curare un certo sintomo.
«Avvenire» del 30 giugno 2010
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