di Giorgio Ruffolo
Alfredo Reichlin non è un osservatore. È un protagonista. Non è uno storico. È un combattente. Di qui l'autenticità e il fascino del suo libro Il midollo del leone, appena uscito con Laterza. Che non ha la pretesa di rappresentare la storia della sinistra italiana. Ma di raccontarla così come lui l'ha vissuta, in un periodo lungo, tormentato, esaltante, nel corso di una vita durante la quale il suo Paese ha cambiato il volto, attraversando il dolore e l'esaltazione, i drammi della miseria e l'euforia della ricchezza. È costante, dalla prima all'ultima pagina, non la pretesa di spiegare, ma la voglia di capire. Il tentativo di cogliere dalla moltitudine degli avvenimenti il senso della storia, quella padronanza della storia che è nutrimento di una morale politica rigorosa: il "midollo di leone", appunto. I temi trattati in questo libro sono molti e complessi. Riguardano tutti la cultura della sinistra italiana, ed è anche per questo motivo che del volume bisogna parlare. Proverò a elencarli, come i francesi, dividendo la materia in tre parti (Gallia omnis in tres partes divisa est, diceva, appunto, Cesare): la sinistra e l'Italia, la sinistra e il Pci, la sinistra e il partito democratico.
Intanto, la sinistra e l'Italia. Quella che a noi giovani si rivelò alla fine della guerra era un formicaio sconvolto. Distruzioni dappertutto. Sembrava la fine. Ma come i formicai sconvolti, brulicò di insospettate energie. Noi giovani conoscemmo allora non l'Italia fasulla, che era stata descritta dai cinegiornali del regime, nei suoi parodistici travestimenti imperiali, ma l'Italia vera del dolore e del lavoro. E imparammo ad amarla. Fummo trascinati dall'onda dei suoi tre miracoli. Il miracolo di una economia che in vent'anni fu proiettata dalla coda alla testa dei paesi capitalistici. Il miracolo di una politica che in piena guerra fredda seppe trovare il consenso necessario per edificare una Costituzione democratica. Il miracolo di una cultura che nelle nuove forme espressive del cinema rappresentava la sua prodigiosa modernità. Non c'è dubbio che molta parte del merito di questi miracoli deve essere riconosciuta al Partito comunista italiano. Era esso stesso un miracolo. Nato nello schema eroico ma angusto della cospirazione, si svolse in quello di un moderno partito di massa, che sapeva parlare a tutta la società italiana. La sua formidabile capacità di guida delle lotte popolari, felice retaggio del patrimonio socialista, era espressione di modernità. Non conati rivoluzionari, ma conquiste concrete e moderne del movimento operaio e contadino che a loro modo contribuivano allo sviluppo dell'economia.
Basta leggere le pagine di Reichlin sulla sua Puglia, dove un popolo di contadini mangiava pane e cicoria conditi con una croce d'olio. A Barletta i bambini giravano scalzi, la carne era quasi sconosciuta. "In pochi anni è diventata una città moderna che esporta scarpe da riposo in tutto il mondo e i nuovi ricchi girano in Mercedes". Mentre i comunisti francesi si chiudevano alla società, i comunisti greci la precipitavano in un'avventura suicida, i comunisti italiani parlavano ai giovani col linguaggio dei giovani. Parlavano ai giovani usciti dalle file del fascismo, non si sognavano di epurarli, li accoglievano. Parlavano ai registi, ai poeti, ai filosofi fondando giornali, riviste, case editrici.
Avevano alle loro spalle il pensiero e l'esempio di un grande pensatore e militante modernizzatore, Antonio Gramsci (cui peraltro, bisogna dire, riservarono la sorte peggiore: fa parte del loro lato bieco). Fondarono "l'Unità" un grande giornale moderno, unico esempio in Europa, ricalcato sul modello del "Corriere della Sera". Surclassarono in modernità i socialisti. Fu merito di Togliatti di avere superato i suoi stessi pregiudizi e i suoi stessi limiti, battendo in breccia le pur presenti, e insidiose, resistenze dei "vecchi combattenti". Quell'incontestabile merito gli è giustamente riconosciuto da Reichlin, uno dei giovani cresciuti in quel clima, che si erano nutriti di letteratura americana. Ma l'ascesa del Pci non fu seguita dal suo logico coronamento. Il Partito comunista si arrestò nella sua marcia. Fu solo a causa delle reazioni internazionali e delle trame delle forze reazionarie domestiche? O, come io penso, esso covava un tarlo fatale di credibilità? È qui che la mia analisi si distacca da quella di Reichlin.
E vengo al secondo tema: la sinistra e il Pci. Ne discutiamo con Alfredo da decenni, sempre con foga di vecchi militanti. È certo che l'arresto della marcia del Pci fu dovuto in parte al fattore K: e cioè al fatto che un grande partito comunista di un grande Paese occidentale non potesse andare al governo senza turbare l'equilibrio tra le due superpotenze. Ma quel che mi è difficile accettare è la tesi esposta nel libro, che il legame con l'Unione Sovietica costituisse per i comunisti italiani un errore fatale, anzi, una sciagura, ma non un fattore costituente della loro natura.
Il fatto di avere riconosciuto e fatto riconoscere a tanta parte della sinistra, come patria del socialismo, uno dei sistemi politici più tirannici della storia del mondo moderno, è stato fatale a tutta la sinistra italiana, non solo e non tanto perché le ha sbarrato la strada del governo, ma perché l'ha screditata di fronte a se stessa, come grande forza democratica. Una controrivoluzione come quella staliniana è stata occultata da una grande bugia. Quando la verità si è imposta ai dirigenti comunisti, questi sono stati frenati dal timore di "perdere le masse". Ma queste, chi le aveva illuse? Reichlin riconosce questo tragico errore. Ma pensa che esso non abbia pregiudicato la credibilità democratica del partito comunista, che guardava all'America molto più che a Mosca. Come dire: gli orrori dei gulag non ci riguardavano. Nessuno avrebbe potuto consentire ai fascisti di affermare che gli orrori dei lager non li riguardavano. Del resto quegli orrori, sia Togliatti che Berlinguer li conoscevano. Averli taciuti non giustifica l'ammirazione politica per il primo e morale per il secondo.
Dico queste cose con la sincerità che si deve a un amico con il quale si condivide una solidarietà politica che neppure la sbandata staliniana può spegnere. E questo mi porta al terzo tema che ci è comune: il declino della sinistra italiana. Non si tratta, come spiega Reichlin, soltanto della sinistra. Si tratta di un attacco alla democrazia. Si sono sciolti i suoi tre grandi partiti, Dc, Pci e Psi. Un'ondata di discredito ha investito le istituzioni, sommergendone le strutture, mentre emergevano i poteri di fatto: finanza, corporazioni, servizi, mafie, telecrazie. Si è contestata la Costituzione. Si è confutata l'unità nazionale. Si è sconfessata la sua storia nei suoi momenti più alti: il risorgimento, la resistenza. Il centro del messaggio del libro sta nella denuncia di una politica della sinistra che ha completamente abbandonato quella che era la sua dichiarata missione: cambiare un mondo troppo ingiusto. Renderlo degno di essere vissuto per tutti gli uomini e per tutte le donne. Se di fatto questo abbandono fosse la conclusione che si trae da una azione politica sconclusionata ci si dovrebbe domandare: a che serve la sinistra? E ancor più in fondo: a che serve la democrazia?
Spesso mi sono chiesto, quando Alfredo prende la parola nei convegni, nei dibattiti pubblici, la ragione del rispetto che lo circonda, del silenzio che si apre alle sue parole. Lui parla a tutti senza alcuna enfasi, con pacatezza come in una conversazione privata, come a ciascuno personalmente. La sua forza, il midollo del suo discorso, sta nella passione cui si ispira, nello scopo cui tende. Propriamente, nella intenzione. Tendere, gettare la corda in alto verso un appiglio. E issarsi, traendosi, sempre un poco più in su. Questa è la fatica della politica. Salire.
Basta leggere le pagine di Reichlin sulla sua Puglia, dove un popolo di contadini mangiava pane e cicoria conditi con una croce d'olio. A Barletta i bambini giravano scalzi, la carne era quasi sconosciuta. "In pochi anni è diventata una città moderna che esporta scarpe da riposo in tutto il mondo e i nuovi ricchi girano in Mercedes". Mentre i comunisti francesi si chiudevano alla società, i comunisti greci la precipitavano in un'avventura suicida, i comunisti italiani parlavano ai giovani col linguaggio dei giovani. Parlavano ai giovani usciti dalle file del fascismo, non si sognavano di epurarli, li accoglievano. Parlavano ai registi, ai poeti, ai filosofi fondando giornali, riviste, case editrici.
Avevano alle loro spalle il pensiero e l'esempio di un grande pensatore e militante modernizzatore, Antonio Gramsci (cui peraltro, bisogna dire, riservarono la sorte peggiore: fa parte del loro lato bieco). Fondarono "l'Unità" un grande giornale moderno, unico esempio in Europa, ricalcato sul modello del "Corriere della Sera". Surclassarono in modernità i socialisti. Fu merito di Togliatti di avere superato i suoi stessi pregiudizi e i suoi stessi limiti, battendo in breccia le pur presenti, e insidiose, resistenze dei "vecchi combattenti". Quell'incontestabile merito gli è giustamente riconosciuto da Reichlin, uno dei giovani cresciuti in quel clima, che si erano nutriti di letteratura americana. Ma l'ascesa del Pci non fu seguita dal suo logico coronamento. Il Partito comunista si arrestò nella sua marcia. Fu solo a causa delle reazioni internazionali e delle trame delle forze reazionarie domestiche? O, come io penso, esso covava un tarlo fatale di credibilità? È qui che la mia analisi si distacca da quella di Reichlin.
E vengo al secondo tema: la sinistra e il Pci. Ne discutiamo con Alfredo da decenni, sempre con foga di vecchi militanti. È certo che l'arresto della marcia del Pci fu dovuto in parte al fattore K: e cioè al fatto che un grande partito comunista di un grande Paese occidentale non potesse andare al governo senza turbare l'equilibrio tra le due superpotenze. Ma quel che mi è difficile accettare è la tesi esposta nel libro, che il legame con l'Unione Sovietica costituisse per i comunisti italiani un errore fatale, anzi, una sciagura, ma non un fattore costituente della loro natura.
Il fatto di avere riconosciuto e fatto riconoscere a tanta parte della sinistra, come patria del socialismo, uno dei sistemi politici più tirannici della storia del mondo moderno, è stato fatale a tutta la sinistra italiana, non solo e non tanto perché le ha sbarrato la strada del governo, ma perché l'ha screditata di fronte a se stessa, come grande forza democratica. Una controrivoluzione come quella staliniana è stata occultata da una grande bugia. Quando la verità si è imposta ai dirigenti comunisti, questi sono stati frenati dal timore di "perdere le masse". Ma queste, chi le aveva illuse? Reichlin riconosce questo tragico errore. Ma pensa che esso non abbia pregiudicato la credibilità democratica del partito comunista, che guardava all'America molto più che a Mosca. Come dire: gli orrori dei gulag non ci riguardavano. Nessuno avrebbe potuto consentire ai fascisti di affermare che gli orrori dei lager non li riguardavano. Del resto quegli orrori, sia Togliatti che Berlinguer li conoscevano. Averli taciuti non giustifica l'ammirazione politica per il primo e morale per il secondo.
Dico queste cose con la sincerità che si deve a un amico con il quale si condivide una solidarietà politica che neppure la sbandata staliniana può spegnere. E questo mi porta al terzo tema che ci è comune: il declino della sinistra italiana. Non si tratta, come spiega Reichlin, soltanto della sinistra. Si tratta di un attacco alla democrazia. Si sono sciolti i suoi tre grandi partiti, Dc, Pci e Psi. Un'ondata di discredito ha investito le istituzioni, sommergendone le strutture, mentre emergevano i poteri di fatto: finanza, corporazioni, servizi, mafie, telecrazie. Si è contestata la Costituzione. Si è confutata l'unità nazionale. Si è sconfessata la sua storia nei suoi momenti più alti: il risorgimento, la resistenza. Il centro del messaggio del libro sta nella denuncia di una politica della sinistra che ha completamente abbandonato quella che era la sua dichiarata missione: cambiare un mondo troppo ingiusto. Renderlo degno di essere vissuto per tutti gli uomini e per tutte le donne. Se di fatto questo abbandono fosse la conclusione che si trae da una azione politica sconclusionata ci si dovrebbe domandare: a che serve la sinistra? E ancor più in fondo: a che serve la democrazia?
Spesso mi sono chiesto, quando Alfredo prende la parola nei convegni, nei dibattiti pubblici, la ragione del rispetto che lo circonda, del silenzio che si apre alle sue parole. Lui parla a tutti senza alcuna enfasi, con pacatezza come in una conversazione privata, come a ciascuno personalmente. La sua forza, il midollo del suo discorso, sta nella passione cui si ispira, nello scopo cui tende. Propriamente, nella intenzione. Tendere, gettare la corda in alto verso un appiglio. E issarsi, traendosi, sempre un poco più in su. Questa è la fatica della politica. Salire.
«L'Espresso» del 29 giugno 2010
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