Diritto di cronaca e democrazia: le opinioni e le violazioni
di Pierluigi Battista
In base alla Costituzione, la limitazione della libertà e della segretezza delle comunicazioni deve essere un'eccezione, non la regola. Il «penalmente rilevante» conta ormai sempre di meno. Si rendono conto i protagonisti dei media che sono diventati loro, i veri giudici? Troppe condanne mediatiche Riservatezza da salvaguardare
Ci sono due validi motivi per bocciare il disegno di legge sulle intercettazioni. È pericoloso: costringe in un vincolo troppo soffocante la libertà di informazione. È inefficace: nell'era di Internet e delle frontiere abbattute, sarà impossibile che una legge tanto rozza possa impedire aggiramenti ed elusioni. A questi due motivi se ne aggiunge un terzo. Questa legge è controproducente perché, ricompattando il giornalismo che si sente assediato e messo sotto accusa, chiude ogni spiraglio di discussione sullo scandalo delle reputazioni devastate dalla pubblicazione di intercettazioni ininfluenti. All'unilateralità dei censori fa da contrappunto l'unilateralità di chi appare sempre più sordo alla complessità del nostro dettato costituzionale. Che tutela con l'articolo 21 la libertà di stampa, ma, insieme, protegge con l'articolo 15 il diritto alla riservatezza, alla difesa della vita privata, alla conservazione di una sfera dell'esistenza al riparo dalle intrusioni dello Stato, degli organi repressivi. Della collettività, e dunque anche dell' opinione pubblica. L'articolo 15 della Costituzione repubblicana recita così: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazioni sono inviolabili». E prosegue: «La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell' autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». La loro limitazione è un'eccezione, non la regola. Deve essere giustificata da un «atto motivato», per impedire abusi e pratiche arbitrarie. E deve prevedere che non siano violate le «garanzie» che solo la legge può fissare e circoscrivere. Ma resta il principio generale: l'inviolabilità della libera corrispondenza, la tutela della riservatezza. L'importanza del valore della «segretezza». Chi esibisce cartelli in questi giorni con la scritta «intercettateci tutti, non abbiamo nulla da nascondere» rivela una concezione autoritaria e primitiva del «segreto»: come se il «segreto» altro non fosse che il velo opaco di pratiche innominabili e inconfessabili. Una concezione fondamentalista e oltranzista della «trasparenza»: l'idea che l'individuo, qualunque individuo, debba vivere senza pareti, nell'impossibilità di una vita privata non esposta agli sguardi intrusivi dell'occhio pubblico. Una traduzione ingenua del mito del Panopticon di Bentham descritto da Michel Foucault come la quintessenza dell'invadenza totalitaria del mondo moderno, dove il Potere guarda tutto, controlla tutto, spia dappertutto. Solo che adesso è l'ora di un Panopticon non più monocratico ma democratico: dove tutti guardano tutti, controllano tutti, spiano tutti. E naturalmente tutti sono guardati da tutti, sono controllati da tutti, sono spiati da tutti. Cosa c'entra la segretezza e la libertà della corrispondenza con la legge sulle intercettazioni? C'entra, perché se tutti lamentano la scomparsa delle lettere e l'estinguersi della letteratura epistolare un tempo ricca e smagliante, è perché la forma contemporanea delle epistole sono gli sms, le e-mail, le telefonate effettuate e ricevute con il cellulare. La tecnologia consente un controllo pressoché illimitato su questa nuova corrispondenza. Non c'è più bisogno degli apparati mastodontici di intercettazione di cui faceva uso Gene Hackmann in un film magnifico diretto da Francis Ford Coppola nel lontano 1974: «La conversazione». Oggi si possono registrare, immagazzinare, sbobinare, trascrivere tonnellate di queste «conversazioni». Anche quelle, come si dice, penalmente non rilevanti. Ma dov'è la differenza con quelle «rilevanti», se poi entrambe finiscono sui giornali? E poi, in teoria, non dovrebbe essere il processo (non l'indagine preliminare) a stabilire la loro eventuale rilevanza come fonte di prova di un reato commesso? E qui si arriva al punto. Innanzitutto per colpa della lentezza della giustizia, oggi il processo mediatico non è solo un'anticipazione di quello propriamente giudiziario: ne è sempre di più il sostituto, il surrogato. Conta sempre meno il «penalmente rilevante», conta sempre di più il «mediaticamente rilevante». Si rendono conto i giornalisti che sono diventati loro, i veri giudici? Che sul piano della reputazione di persone anche non indagate, la pubblicazione delle loro chiacchiere sui giornali assume una valenza di sanzione sociale molto più potente dell'eventuale (e solo eventuale) condanna giudiziaria? E se un'eventuale sentenza assolutoria sul piano giudiziario rappresenta un risarcimento, quale risarcimento potrà mai essere adeguato per restituire a chi viene stritolato dai media (prima e a prescindere dal processo) la dignità irrimediabilmente perduta? La legge sulle intercettazioni non dà risposte a questi interrogativi, proponendo esclusivamente una feroce stretta repressiva. Ma verrà mai un momento in cui noi giornalisti potremo discuterne liberamente?
«Corriere della Sera» del 25 maggio 2010
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