L’indice dei libri passa al setaccio l’ultimo saggio del filosofo. Il solito malloppo figlio della fotocopiatrice. Con autodenuncia involontaria
di Matteo Sacchi
Come un déjà vu: in tutti i sensi. Chi si reca in questi giorni sul sito internet dell’Indice dei libri (uno dei più prestigiosi mensili culturali d’Italia) si imbatte in uno strano editoriale. La garbata prosa segnala che, sebbene L’indice non sia abituato ad alzare la mannaia contro i libri, ci sono cose che sono culturalmente intollerabili: «Poco ci interessano le polemiche personali... ma molto ci interessa il vizio metodologico, la cattiva prassi che dà assuefazione e finisce per essere accettata». La frase introduce un lunghissimo articolo di Flavio Bucci, ospitato dal sito, sull’ultimo libro di Umberto Galimberti: I miti del nostro tempo. Perché?
Perché l’ultimo capolavoro galimbertiano per usare le parole di Bucci «è al 75% riciclo di articoli di Repubblica e per un ulteriore 10% riciclo di altre opere di Galimberti». E ancora: «Chiunque voglia comporre un qualsiasi tipo di testo su qualsiasi tema, in breve tempo, con non molta fatica e risultati sicuri, non ha perciò che da prendere a modello il libro di Galimberti». Bucci per trentasette pagine, con certosina pazienza, dimostra come interi brani del libro siano stati pubblicati uguali uguali prima in articoli di Repubblica, poi in altri libri, poi in altri libri ancora, e poi di nuovo su Repubblica. Insomma tanto per fare un esempio (non abbiamo lo spazio di Bucci): un lungo brano, tra pagg. 68 e 69, nasce come articolo per Il Sole24Ore, poi confluisce nei Paesaggi dell’Anima del 1996, poi finisce in «E vissero infelici e scontenti» su Repubblica del 23 aprile 1996, fa capolino di nuovo in «Dove è finita la felicità», Repubblica 21 settembre 2001, ricompare in «Quel sentimento pieno che non si può dimenticare» su Repubblica del 13 aprile 2003. Ecco la «vena carsica» neanche tanto nascosta del saggio pubblicato con gioia dalla prestigiosa Feltrinelli e finito allegramente in classifica, delibato da lettori un po’ meno attenti di Flavio Bucci. Tutto questo dopo che Il Giornale seguito poi da Avvenire, il Corriere, L’Unità e qualche altro organo di stampa, tra aprile e luglio 2008, ha messo in luce che Galimberti ha clonato pagine e pagine di suoi colleghi, più o meno autorevoli, riutilizzandole in molti suoi volumi, compresi quelli del suo concorso a cattedra. Ecco il déjà vu allora. In I miti del nostro tempo leggiamo le stesse cose che abbiamo già letto e i più non se ne accorgono, qualcuno denuncia la cosa ma probabilmente Galimberti resterà, come sempre, inossidabile. La sola differenza? In questo saggio Galimberti ha messo delle note per segnalare «i prestiti» dai colleghi. Diamo la parola a Bucci: «Galimberti possiede, in realtà, la capacità di trasformare ciò che per ventura capiti tra le sue mani in duttile materiale per la costruzione dei suoi testi: I miti del nostro tempo ce ne offre numerose prove. Se confrontiamo le pagine del libro con gli articoli ivi riprodotti scopriamo, infatti, che molteplici brani di altri autori risultano virgolettati nel libro, mentre non lo erano negli articoli». Avendo l’inossidabile Umberto capito che non poteva «più rubare» a man bassa, questa volta le virgolette le ha messe. Peccato però che visto che l’abitudine di copiare se stesso è rimasta, si siano trasformate in una autodenuncia di decine di plagi mai scoperti sin ora. Scandalo?
La locomotiva culturale Galimberti non subirà deviazioni dal suo binario trionfale, che passa da una conferenza (sempre la stessa ripetuta) a un festival (in cui dire ridacchiando che «in ogni rielaborazione però, c’è uno scatto di novità»), a un nuovo saggio frankestein. Non per nulla le pagine che ospitano Bucci sono denominate «Segnali» e sono introdotte dal disegno di un indiano che fa alzare nuvolette da un falò. Quando i pellerossa incontrano il «cavallo di ferro» possono essere solo investiti e schiacciati, mentre le loro inutili frecce rimbalzano contro la lamiera. E dove non sono arrivati i quotidiani - l’università di Venezia nemmeno si è presa la briga di riesaminare il concorso di Galimberti, men che meno il ministero: ha fatto meglio Repubblica che per un anno l’ha tenuto lontano dalle sue pagine - difficilmente arriverà L’Indice. Però un’ultima freccettina spuntata, per solidarietà, contro l’impenetrabile scudo del maître à penser del copia e incolla vogliamo tirarla anche noi. Hanno fatto bene a Venezia a non occuparsi del concorso. Così Galimberti racconta in un’intervista del 2005 il suo arrivo all’università: «Nel 1976 ero oramai stanco di stare al Liceo.... questa insoddisfazione mi portò... ad andare a trovare Severino... riuscì a trovarmi una cattedra di antropologia culturale... Effettivamente, io di Antropologia Culturale non sapevo niente. Poiché però mi ritengo una persona seria mi sono comprato tutto e mi sono messo a studiare la materia per bene... Ho insegnato questa materia per dieci anni, ed oggi posso dire, non per vantarmi, di conoscerla proprio bene». Se questo è il punto di partenza (viva la meritocrazia) candidamente confessato, un libro copia e incolla è un gran bel risultato. E per fortuna non è un cardiochirurgo.
Perché l’ultimo capolavoro galimbertiano per usare le parole di Bucci «è al 75% riciclo di articoli di Repubblica e per un ulteriore 10% riciclo di altre opere di Galimberti». E ancora: «Chiunque voglia comporre un qualsiasi tipo di testo su qualsiasi tema, in breve tempo, con non molta fatica e risultati sicuri, non ha perciò che da prendere a modello il libro di Galimberti». Bucci per trentasette pagine, con certosina pazienza, dimostra come interi brani del libro siano stati pubblicati uguali uguali prima in articoli di Repubblica, poi in altri libri, poi in altri libri ancora, e poi di nuovo su Repubblica. Insomma tanto per fare un esempio (non abbiamo lo spazio di Bucci): un lungo brano, tra pagg. 68 e 69, nasce come articolo per Il Sole24Ore, poi confluisce nei Paesaggi dell’Anima del 1996, poi finisce in «E vissero infelici e scontenti» su Repubblica del 23 aprile 1996, fa capolino di nuovo in «Dove è finita la felicità», Repubblica 21 settembre 2001, ricompare in «Quel sentimento pieno che non si può dimenticare» su Repubblica del 13 aprile 2003. Ecco la «vena carsica» neanche tanto nascosta del saggio pubblicato con gioia dalla prestigiosa Feltrinelli e finito allegramente in classifica, delibato da lettori un po’ meno attenti di Flavio Bucci. Tutto questo dopo che Il Giornale seguito poi da Avvenire, il Corriere, L’Unità e qualche altro organo di stampa, tra aprile e luglio 2008, ha messo in luce che Galimberti ha clonato pagine e pagine di suoi colleghi, più o meno autorevoli, riutilizzandole in molti suoi volumi, compresi quelli del suo concorso a cattedra. Ecco il déjà vu allora. In I miti del nostro tempo leggiamo le stesse cose che abbiamo già letto e i più non se ne accorgono, qualcuno denuncia la cosa ma probabilmente Galimberti resterà, come sempre, inossidabile. La sola differenza? In questo saggio Galimberti ha messo delle note per segnalare «i prestiti» dai colleghi. Diamo la parola a Bucci: «Galimberti possiede, in realtà, la capacità di trasformare ciò che per ventura capiti tra le sue mani in duttile materiale per la costruzione dei suoi testi: I miti del nostro tempo ce ne offre numerose prove. Se confrontiamo le pagine del libro con gli articoli ivi riprodotti scopriamo, infatti, che molteplici brani di altri autori risultano virgolettati nel libro, mentre non lo erano negli articoli». Avendo l’inossidabile Umberto capito che non poteva «più rubare» a man bassa, questa volta le virgolette le ha messe. Peccato però che visto che l’abitudine di copiare se stesso è rimasta, si siano trasformate in una autodenuncia di decine di plagi mai scoperti sin ora. Scandalo?
La locomotiva culturale Galimberti non subirà deviazioni dal suo binario trionfale, che passa da una conferenza (sempre la stessa ripetuta) a un festival (in cui dire ridacchiando che «in ogni rielaborazione però, c’è uno scatto di novità»), a un nuovo saggio frankestein. Non per nulla le pagine che ospitano Bucci sono denominate «Segnali» e sono introdotte dal disegno di un indiano che fa alzare nuvolette da un falò. Quando i pellerossa incontrano il «cavallo di ferro» possono essere solo investiti e schiacciati, mentre le loro inutili frecce rimbalzano contro la lamiera. E dove non sono arrivati i quotidiani - l’università di Venezia nemmeno si è presa la briga di riesaminare il concorso di Galimberti, men che meno il ministero: ha fatto meglio Repubblica che per un anno l’ha tenuto lontano dalle sue pagine - difficilmente arriverà L’Indice. Però un’ultima freccettina spuntata, per solidarietà, contro l’impenetrabile scudo del maître à penser del copia e incolla vogliamo tirarla anche noi. Hanno fatto bene a Venezia a non occuparsi del concorso. Così Galimberti racconta in un’intervista del 2005 il suo arrivo all’università: «Nel 1976 ero oramai stanco di stare al Liceo.... questa insoddisfazione mi portò... ad andare a trovare Severino... riuscì a trovarmi una cattedra di antropologia culturale... Effettivamente, io di Antropologia Culturale non sapevo niente. Poiché però mi ritengo una persona seria mi sono comprato tutto e mi sono messo a studiare la materia per bene... Ho insegnato questa materia per dieci anni, ed oggi posso dire, non per vantarmi, di conoscerla proprio bene». Se questo è il punto di partenza (viva la meritocrazia) candidamente confessato, un libro copia e incolla è un gran bel risultato. E per fortuna non è un cardiochirurgo.
«Il Giornale» del 21 giugno 2010
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