I suicidi di chi ha successo e di chi non lo ha
di Carlo Cardia
Tom Nicon è morto suicida a 22 anni, dopo aver assaporato bellezza, successo, quasi l’apice della notorietà nel mondo della moda. Giorgio Armani ha trovato parole che diremmo tutti noi davanti a una morte assurda: «Questo è un mondo troppo legato alla giovinezza, come se la vita finisse a 22 anni. Bisogna far capire ai giovani che la vita è bella anche dai 23 anni in poi. Le delusioni ci sono sempre, anche quelle d’amore, ma si devono affrontare senza tragedie. La vita continua, val la pena di viverla». Parole dette con amore, che non si rassegnano al suicidio di chi non ha avuto la libertà di scegliere, perché ha conosciuto davvero solo uno spicchio dell’esistenza, e quello spicchio non gli è piaciuto.
Non possiamo, però, archiviare così un evento che si verifica più spesso di quanto crediamo. Giovani, magari con qualche anno di meno o di più, che buttano la loro vita con il suicidio, o in altro modo, ce ne sono tanti, e segnano la nostra società spesso nell’indifferenza generale. Le ragioni sono diverse, perché il successo è stato troppo o troppo poco o è mancato del tutto, per un banale insuccesso negli studi, per incomprensioni in famiglia, per delusioni d’amore o di amicizie. Nella risposta che diamo è contenuto più o meno implicitamente un messaggio che rivolgiamo a noi stessi quasi per consolarci: sono fragili, non hanno resistito ai primi colpi della vita, hanno ceduto a solitudine e debolezza. Ed è giusto anche questo. Ma manca un fattore pesante come un macigno che nessuno vuole ricordare. A questi giovani (studenti, attori, o ancora senza mestiere) nessuno parla più della vita in modo vero e leale, come un’esperienza bella e impegnativa, ricca di eventi, ma lunga da percorrere e piena di fatiche e delusioni, da scoprire con le speranze della gioventù e da vivere con l’impegno necessario, sapendo sin dall’inizio che essa percorre una parabola che se non è sorretta da qualcosa che la trascende e si coltiva nell’anima, può pesare e abbattere fino a soffocare.
Nella scuola, nei media, a volte nella famiglia, si trasmette spesso ai giovani il messaggio più facile, per il quale la vita va vissuta momento per momento, faticando non troppo, senza credere molto negli ideali (per alcuni – si sa – se non ci si crede, è meglio), e offrendo loro esempi di successi tanto improvvisi ed effimeri quanto lo è la loro età. Guai poi a parlare di una visione religiosa della vita, che la collochi in un contesto più grande, che dia spazio alla fede nel Dio dell’amore e della redenzione, immetta nell’animo convinzioni forti. La religione è considerata inutile, improduttiva, sorpassata, e tutto il bagaglio formativo che il cristianesimo ha accumulato per secoli è visto con sospetto. Capita così ai giovani di trovarsi quasi come il Tannhäuser di Wagner che, dopo essere stato irretito dalla dea in una visione tutta idilliaca e deformata della vita, sceglie di tornare a vivere, accettando anche di soffrire, piuttosto che star chiuso in un involucro privo di contenuti. Ma la vita reale è diversa dall’ambiente dell’opera, e i giovani pagano un prezzo molto alto quando le illusioni cadono all’improvviso. C’è un punto che si stenta a cogliere, nella crisi delle nuove generazioni, perché appiattendo la vita in una prospettiva immediata, negando sforzi e ideali, ci si illude di dar loro maggiore libertà, ma si raggiunge il risultato esattamente opposto. Perché la libertà consiste nel poter scegliere tra una serie di possibilità realmente offerte alla coscienza, mentre questa appassisce quando neanche sa quale forza può avere dentro di sé per resistere a difficoltà improvvise, di quale spinta interiore può essere capace per aspettare, impegnarsi, costruire, dare un senso complessivo a ciò che lo circonda.
Preservare sempre e comunque i giovani dall’affrontare anche i giudizi negativi (delusioni, fallimenti piccoli o temporanei) vuol dire privarli di un bene prezioso, della volontà e dell’orgoglio che vengono dalla convinzione, dal possesso di valori che hanno solidità e interpretano le rinunce come scelte positive e non fallimentari. La società adulta muove spesso da un preconcetto, quando ritiene che la giovinezza sia un’età di passaggio e i giovani troveranno da soli stabilità quando entreranno nella vita a pieno titolo. La giovinezza non è una fase transitoria, è l’età formativa per eccellenza, se viene privata di valori che danno forza e fiducia in una dimensione più elevata, la crescita è dolorosa, incompleta, può addirittura essere rifiutata senza neanche sapere cosa ci riserva la vita.
Non possiamo, però, archiviare così un evento che si verifica più spesso di quanto crediamo. Giovani, magari con qualche anno di meno o di più, che buttano la loro vita con il suicidio, o in altro modo, ce ne sono tanti, e segnano la nostra società spesso nell’indifferenza generale. Le ragioni sono diverse, perché il successo è stato troppo o troppo poco o è mancato del tutto, per un banale insuccesso negli studi, per incomprensioni in famiglia, per delusioni d’amore o di amicizie. Nella risposta che diamo è contenuto più o meno implicitamente un messaggio che rivolgiamo a noi stessi quasi per consolarci: sono fragili, non hanno resistito ai primi colpi della vita, hanno ceduto a solitudine e debolezza. Ed è giusto anche questo. Ma manca un fattore pesante come un macigno che nessuno vuole ricordare. A questi giovani (studenti, attori, o ancora senza mestiere) nessuno parla più della vita in modo vero e leale, come un’esperienza bella e impegnativa, ricca di eventi, ma lunga da percorrere e piena di fatiche e delusioni, da scoprire con le speranze della gioventù e da vivere con l’impegno necessario, sapendo sin dall’inizio che essa percorre una parabola che se non è sorretta da qualcosa che la trascende e si coltiva nell’anima, può pesare e abbattere fino a soffocare.
Nella scuola, nei media, a volte nella famiglia, si trasmette spesso ai giovani il messaggio più facile, per il quale la vita va vissuta momento per momento, faticando non troppo, senza credere molto negli ideali (per alcuni – si sa – se non ci si crede, è meglio), e offrendo loro esempi di successi tanto improvvisi ed effimeri quanto lo è la loro età. Guai poi a parlare di una visione religiosa della vita, che la collochi in un contesto più grande, che dia spazio alla fede nel Dio dell’amore e della redenzione, immetta nell’animo convinzioni forti. La religione è considerata inutile, improduttiva, sorpassata, e tutto il bagaglio formativo che il cristianesimo ha accumulato per secoli è visto con sospetto. Capita così ai giovani di trovarsi quasi come il Tannhäuser di Wagner che, dopo essere stato irretito dalla dea in una visione tutta idilliaca e deformata della vita, sceglie di tornare a vivere, accettando anche di soffrire, piuttosto che star chiuso in un involucro privo di contenuti. Ma la vita reale è diversa dall’ambiente dell’opera, e i giovani pagano un prezzo molto alto quando le illusioni cadono all’improvviso. C’è un punto che si stenta a cogliere, nella crisi delle nuove generazioni, perché appiattendo la vita in una prospettiva immediata, negando sforzi e ideali, ci si illude di dar loro maggiore libertà, ma si raggiunge il risultato esattamente opposto. Perché la libertà consiste nel poter scegliere tra una serie di possibilità realmente offerte alla coscienza, mentre questa appassisce quando neanche sa quale forza può avere dentro di sé per resistere a difficoltà improvvise, di quale spinta interiore può essere capace per aspettare, impegnarsi, costruire, dare un senso complessivo a ciò che lo circonda.
Preservare sempre e comunque i giovani dall’affrontare anche i giudizi negativi (delusioni, fallimenti piccoli o temporanei) vuol dire privarli di un bene prezioso, della volontà e dell’orgoglio che vengono dalla convinzione, dal possesso di valori che hanno solidità e interpretano le rinunce come scelte positive e non fallimentari. La società adulta muove spesso da un preconcetto, quando ritiene che la giovinezza sia un’età di passaggio e i giovani troveranno da soli stabilità quando entreranno nella vita a pieno titolo. La giovinezza non è una fase transitoria, è l’età formativa per eccellenza, se viene privata di valori che danno forza e fiducia in una dimensione più elevata, la crescita è dolorosa, incompleta, può addirittura essere rifiutata senza neanche sapere cosa ci riserva la vita.
«Avvenire» del 23 giugno 2010
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