Benedetto XVI ha «inventato» un’interpretazione che integra il metodo storico-scientifico con criteri ecclesiali; parla don dal Covolo
di Gianni Cardinale
Una sollecitudine caratteristica del magistero di Benedetto XVI è quella di cercare un approccio alla Bibbia che ricomponga la «devastante divaricazione tra esegesi e teologia», attraverso il metodo dell’esegesi «canonica» e di quella «teologica». Per illustrare anche ai semplici fedeli questa dimensione del magistero ratzingeriano è arrivato in libreria un agile volumetto del salesiano don Enrico dal Covolo, ordinario di Letteratura cristiana antica e consultore della Congregazione per la Dottrina della fede. L’opera del religioso, che quest’anno è stato chiamato dal Pontefice a predicare gli esercizi spirituali della Quaresima alla Curia romana, si intitola Il Vangelo e i Padri. Per un’esegesi teologica (Rogate, pp. 190, euro 16). «Con il suo 'Gesù di Nazaret' – spiega dal Covolo – Joseph Ratzinger-Benedetto XVI aveva segnato una tappa decisiva in questo urgente itinerario di 'unità tra esegesi e teologia'. La proposta originale del libro del Papa, in effetti, consisteva nell’integrare il metodo storico-critico – benemerito, indispensabile, ma in se stesso insufficiente – con alcuni criteri nuovi, maturati soprattutto negli ultimi due decenni in vari ambienti cattolici della ricerca teologico-biblica».
Quali sono questi «criteri nuovi» individuati dal Papa?
«Innanzitutto una fiducia sostanziale nell’attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico.
Quindi una robusta rivendicazione dell’unità e della continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Poi un’ermeneutica più 'ecclesiale', docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura. Infine una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede. Insomma, nessun brano delle Scritture può essere interpretato correttamente quando si prescinde dal suo contesto vitale, che è stabilito dalla fede della Chiesa, la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Questo 'metodo nuovo' – che il Papa stesso definiva 'esegesi canonica' – gli ha consentito, in ultima analisi, di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il 'Gesù storico'. Così non c’è più alcuna divaricazione tra Gesù di Nazaret e il Cristo della fede: c’è un solo, realissimo Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza».
Nel suo volume lei spiega come Benedetto XVI ha approfondito questo itinerario di «unità tra esegesi e teologia» con il suo intervento alla Congregazione generale del 14 ottobre 2008, durante il Sinodo dei vescovi dedicato alla Parola di Dio. In che senso?
«A ben guardare, quell’intervento introduce un importante elemento di novità, rispetto al Gesù di Nazaret. In esso il Papa assume i 'criteri nuovi' dell’'esegesi canonica' per fondare e raccomandare una vera e propria 'esegesi teologica'. In quel contesto Benedetto XVI ci ha ricordato che solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di un’esegesi teologica, cioè di un’esegesi adeguata alla Sacra Scrittura. Ma, ha aggiunto, 'mentre al primo livello l’attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello… E questo ha conseguenze piuttosto gravi'».
Quali sono le conseguenze di questo «differenziale» esegetico?
«Quella più grave è senza dubbio la divaricazione tra la cosiddetta 'esegesi scientifica', o 'accademica' – spesso unilateralmente devota al metodo storico-critico –, e la lectio divina, basata sulla 'esegesi spirituale', o 'allegorica', dei Padri. A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell’ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta 'teologia razionale', fondata sull’esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la 'teologia monastica', la 'teologia in ginocchio', per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l’esperienza contemplativa del suo amore».
Quale il rimedio?
«È l’approccio rinnovato alle Scritture che il Papa Benedetto ci raccomanda, e che rende urgente un certo tipo di ritorno ai Padri nell’esegesi biblica. Certo, non un ritorno acritico e antistorico, che possa compromettere i cospicui guadagni raggiunti dalla scienza biblica, grazie anche – da ultimo – all’impiego del metodo storicocritico. Si tratta – come il Papa stesso suggerisce – di un ritorno capace di assumere anche 'metodi nuovi, attentamente ponderati', quale soprattutto una lectio divina che sia 'al passo con i tempi'. È questa la sfida che ho voluto affrontare nel libro che presento».
Quali sono questi «criteri nuovi» individuati dal Papa?
«Innanzitutto una fiducia sostanziale nell’attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico.
Quindi una robusta rivendicazione dell’unità e della continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Poi un’ermeneutica più 'ecclesiale', docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura. Infine una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede. Insomma, nessun brano delle Scritture può essere interpretato correttamente quando si prescinde dal suo contesto vitale, che è stabilito dalla fede della Chiesa, la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Questo 'metodo nuovo' – che il Papa stesso definiva 'esegesi canonica' – gli ha consentito, in ultima analisi, di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il 'Gesù storico'. Così non c’è più alcuna divaricazione tra Gesù di Nazaret e il Cristo della fede: c’è un solo, realissimo Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza».
Nel suo volume lei spiega come Benedetto XVI ha approfondito questo itinerario di «unità tra esegesi e teologia» con il suo intervento alla Congregazione generale del 14 ottobre 2008, durante il Sinodo dei vescovi dedicato alla Parola di Dio. In che senso?
«A ben guardare, quell’intervento introduce un importante elemento di novità, rispetto al Gesù di Nazaret. In esso il Papa assume i 'criteri nuovi' dell’'esegesi canonica' per fondare e raccomandare una vera e propria 'esegesi teologica'. In quel contesto Benedetto XVI ci ha ricordato che solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di un’esegesi teologica, cioè di un’esegesi adeguata alla Sacra Scrittura. Ma, ha aggiunto, 'mentre al primo livello l’attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello… E questo ha conseguenze piuttosto gravi'».
Quali sono le conseguenze di questo «differenziale» esegetico?
«Quella più grave è senza dubbio la divaricazione tra la cosiddetta 'esegesi scientifica', o 'accademica' – spesso unilateralmente devota al metodo storico-critico –, e la lectio divina, basata sulla 'esegesi spirituale', o 'allegorica', dei Padri. A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell’ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta 'teologia razionale', fondata sull’esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la 'teologia monastica', la 'teologia in ginocchio', per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l’esperienza contemplativa del suo amore».
Quale il rimedio?
«È l’approccio rinnovato alle Scritture che il Papa Benedetto ci raccomanda, e che rende urgente un certo tipo di ritorno ai Padri nell’esegesi biblica. Certo, non un ritorno acritico e antistorico, che possa compromettere i cospicui guadagni raggiunti dalla scienza biblica, grazie anche – da ultimo – all’impiego del metodo storicocritico. Si tratta – come il Papa stesso suggerisce – di un ritorno capace di assumere anche 'metodi nuovi, attentamente ponderati', quale soprattutto una lectio divina che sia 'al passo con i tempi'. È questa la sfida che ho voluto affrontare nel libro che presento».
«Avvenire» del 29 giugno 2010
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