di Davide Rondoni
I dibattiti degli intellettuali sugli intellettuali sono una delle cose più noiose e autoreferenziali. Perciò il mio non è un intervento nel dibattito, ma una supplica e un’invettiva. L’ultimo intervento è di Alfonso Belardinelli sul 'Corsera' di ieri a commento di un libro di Cesare De Michelis. Anche Pigi Battista qualche mese fa ne ha pubblicato uno suo. La mia supplica-invettiva si aggancia a una frase di Belardinelli. Dopo aver invitato a confrontarsi con la crisi di nozioni come progresso, modernità eccetera, dice, appoggiandoci alle pagine di De Michelis, che la lotta contro la menzogna «non è una lotta politica, ma piuttosto impolitica». Ecco, in questa necessaria precisazione di Belardinelli vedo uno dei problemi maggiori. C’è sempre una sorta di attrazionerepulsione che gli intellettuali nostrani avvertono nei confronti della politica. Come se questo fosse il loro reale campo di verifica: la incidenza o meno sulla politica. Dopo la fase novecentesca dello «schieramento», che ha prodotto guai e scene grottesche, viltà più o meno palesi, e conformismi di vario segno, ora sembra che l’intellettuale debba condurre le sue battaglie di idee evitando la politica. O forse il suggerimento è un altro: cosa significa il termine «impolitico»? Non credo significhi una indifferenza alla politica. Significa, per me, il rifiuto del primato della politica su tutto. Che non c’è 'solo' la politica come campo in cui si verifica la verità o la menzogna di una idea. Esistono altri criteri per stabilire la bontà o meno, la verità o no. C’è una conseguenza immediata se si assume questo punto di vista: anche l’avversario politico può avere ragione. O torto il compagno di parte politica. E si può cambiare campo politico in virtù della bontà di certe idee che si maturano. E di più: la concordia tra intellettuali può avvenire su alcune cose e su altre no. Ad esempio, mentre concordo sulla suddetta frase di Belardinelli, dissento quasi sempre da lui quando parla di poesia italiana. Sembra che si sia percorso, con molte giravolte, tutto il Novecento, per arrivare a un punto che era invece già ben chiaro a grandi intellettuali (se proprio così vogliamo chiamarli) come Dante o, per stare nella cosiddetta modernità sempre in contrasto con se stessa, Baudelaire. Se Belardinelli non gioca con le parole, occorre ammettere che c’è un terreno in cui si misurano verità e menzogna sulla valutazione di un fatto, di una idea, e che non è quello politico. Quale sia questo terreno il dibattito tra intellettuali non lo dice. Ma i poeti lo sanno. E lo sa il popolo: è il cuore e l’esperienza di un uomo. Ma qui mi occorre un altro passo. Dire che su verità e menzogna non vale solo il campo politico ha conseguenze 'politiche'. Cioè non nega il valore della politica ma le assegna un posto rispetto a cui la elaborazione delle idee e la loro verifica viene prima. Ma, ancora: quale è questo prima ? Il cuore dell’uomo e la sua esperienza sono state - e proprio dal lavorìo di molti intellettuali - dichiarate inabili a riconoscere la verità, a rispondere adeguatamente ad essa. E allora quale mai potrà essere questo campo? La prima necessità degli intellettuali è di nuovo indicare il cuore (che per la Bibbia è centro affettivo e valutativo) e la esperienza dell’uomo come sede per verificare la verità, e devono indicarci come. Se non lo faranno, come spesso non lo fanno, possono pure continuare a discutere del loro rapporto con la politica o la loro distanza da essa, ma sarà semplicemente inutile il loro lavoro, e dipendente comunque dal posto che la politica (cioè la gestione del potere) assegnerà o concederà loro.
«Avvenire» del 22 giugno 2010
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