26 giugno 2010

Cancellano il dolore e la vita nascente

Da Londra testi ambigui e sconcertanti
di Carlo Bellieni
L’Associazione dei ginecologi e ostetrici inglesi ha pubblicato due documenti che faranno discutere, riguardanti la sensibilità del feto in utero e la discrezionalità delle decisioni sulle interruzioni di gravidanza in caso di malformazione fetale. Il primo, intitolato Fetal awareness (coscienza fetale), mette in dubbio che il feto senta dolore prima delle 24 settimane di gestazione per la mancanza di connessioni nervose con la corteccia cerebrale e arriva a sostenere che in tutta la gravidanza «non sperimenta mai uno stato di vera veglia ed è tenuto dal contenuto chimico dell’utero in uno stato di incoscienza o sedazione».
Già questa è un’affermazione preoccupante, proprio mentre si sta esplorando e capendo molto delle sensazioni dei soggetti in stato vegetativo e si comprende che per provare dolore non è necessaria l’attivazione della corteccia, ma solo del sottostante nucleo di cellule dette "talamo": Su questo punto è molto chiaro quanto afferma, sulla rivista ufficiale della Società degli studi sul dolore (Iasp), Sunny Anand, maggior esperto mondiale di dolore fetale.
La convinzione che il feto umano sia in uno stato di continuo sonno viene inoltre contraddetta dall’osservazione e da vari studi scientifici che, sulle riviste specializzate, hanno descritto approfonditamente le reazioni di fuga, di sobbalzo e spavento e perfino il pianto del feto in utero.
Se poi bastasse il calore e l’adenosina del liquido amniotico per anestetizzare il feto fino alla nascita, bisognerebbe domandarsi perché nessuno li usa per anestetizzare i neonati durante gli interventi chirurgici che li riguardano. Oltretutto, se fosse vero che i piccoli non avvertono dolore fino alle 24 settimane, non avremmo più motivo di anestetizzare i prematuri se sono più piccoli di quell’età: ma loro gradirebbero? È forse allora il caso di ricordare che, nello scorso marzo, in Nebraska è stato abbassato a 20 settimane il limite legale per l’aborto, proprio per l’evidenza che il feto da quel momento in poi percepisce, senza dubbio, il dolore.
L’altro documento, intitolato «Aborto per anomalia fetale», dà indicazioni per certi versi contrastanti. Sottolinea che la sopravvivenza a 22 settimane di gestazione diventa sempre più comune e se un feto sopravvive all’aborto dopo 21 settimane e 6 giorni va rianimato (per inciso, osserviamo che, nel 2008, ben 124 gravidanze sono state interrotte dopo la 24ª settimana). Ma il documento appoggia anche il «feticidio», cioè l’uccisione del feto col cloruro di potassio dentro l’utero per evitare che nasca vivo.
Una drammatica contraddizione: è l’aria che entra nei polmoni che rende sacra la vita? Purtroppo, però, anche questo documento stilato dai ginecologi e ostetrici d’Oltremanica delude un’attesa: quella di chi richiedeva che si esprimesse esplicitamente, mettendo dei paletti, su cosa si intende con le espresioni «grave handicap» e «rischio serio», requisiti che in Inghilterra sono alla base dell’autorizzazione all’aborto, cosa che può lasciare una discrezionalità tale da rasentare la deriva, fino a giustificare – come illustra il documento – l’aborto per condizioni operabili quali le lesioni al palato. Siamo dunque in presenza di testi con seri limiti.
E forse quello maggiore sta in ciò che non dicono: perché stilare raccomandazioni sulle tecniche abortive fa sentire sempre più la mancanza di un altrettanto importante impegno per la prevenzione dell’aborto. Alle donne andrebbero offerte tutte le vie per vivere una gravidanza serena, anche quando si prospetta difficile, mentre il mondo occidentale si prodiga soprattutto in istruzioni per il fine vita.
«Avvenire» del 26 giugno 2010

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