Come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato ma sopportato?
di Umberto Eco
Quelli della mia generazione, che hanno affrontato il Sessantotto tra i trentacinque e i quarant'anni, troppo anziani per essere studenti in rivolta e troppo giovani per essere vegliardi che sfuggivano il confronto, sono stati a lungo ricattatati della classe operaia. Voglio dire, non dalla classe stessa, poverini che avevano i loro problemi, ma dai suoi adoratori borghesi di sinistra che, appellandosi alla nascita di una scienza proletaria, ti chiedevano che senso avesse occuparsi ancora di Dante, di Kant o di Joyce. E siccome si voleva, in modo o nell'altro, continuare a parlarne anche in una facoltà occupata (bastava volerlo ed era possibilissimo) ci si sforzava di mostrare come, nel lungo periodo, anche la conoscenza di Dante o di Joyce poteva contribuire al riscatto della classe operaia.
Figuriamoci il sollievo di molti di noi quando hanno scoperto che era finito il periodo in cui gli operai non avevano nulla da perdere tranne le proprie catene, perché ormai, avendo da perdere il televisore, il frigorifero, la piccola cilindrata e la visione di molte veline ogni sera, votavano per Berlusconi e Bossi - deviando il proprio sdegno dai capitalisti agli extracomunitari. Il comportamento dei proletari di un tempo era diventato quello tipico del sottoproletariato. Finalmente, si era esclamato, non dobbiamo più farci carico della classe operaia! Sono più poveri adesso di alcuni anni fa? Sono loro che hanno preferito le ronde ai sindacati. Liberi dal ricatto della classe operaia scriveremo ora non solo su Dante, ma persino sul Burchiello e, come il protagonista di 'A rebours' metteremo sul nostro tappeto persiano una tartaruga dal carapace incrostato di rubini, turchesi, acquamarine e crisoberilli verde asparago.
Malumori a parte, la classe operaia è diventata invisibile: gli operai, come ha detto Ilvo Diamanti, non fanno più massa critica e ci accorgiamo che ci sono solo quando muoiono sul lavoro. Trovo questa citazione quasi all'inizio di un irritatissimo e amarissimo pamphlet di Furio Colombo, 'La paga' (Saggiatore, 14). Dal titolo e da una immagine piuttosto stakanovista di copertina si penserebbe a un altro discorso sulla classe operaia, ma in questo libello non si nomina la classe operaia come se, ormai, con la squalifica dei sindacati, la fine delle ideologie, la nascita di nuovi partiti che hanno assorbito da destra le scontentezze che erano un giorno di sinistra, queste denominazioni avessero perso ogni interesse. In questo libro non si parla della scomparsa della classe dei lavoratori, ma della scomparsa del lavoro.
L'idea può apparire bizzarra, ma a ben pensarci tra deregolamentazione, crollo degli imperi finanziari, caduta delle Borse, manager che abbandonano l'ufficio con la scatola di cartone sotto il braccio e un bonus stratosferico nel portafoglio, si diffonde dappertutto, nelle dichiarazioni ufficiali e nella politica spicciola, il disprezzo del lavoro. Eccessivo pare sempre alla Confindustria il costo del lavoro, le aziende fanno il massimo per dissolvere i grandi centri produttivi in una pluralità di persone che non si conoscono tra loro, siedono in provincia a un computer, e lavorano a progetto senza garanzie di continuità, la trasformazione delle grandi compagnie da luoghi dove si produceva (e quindi si aveva bisogno di manodopera specializzata) a pacchetti da vendere e rivendere, e quindi più appetibili sul mercato finanziario quanto più si sono alleggerite dei costi del lavoro, ha reso accettabile senza indignazione e stupore le campagne contro i sindacati (ormai considerati sanguisughe parassitarie) e persino contro gli stessi lavoratori. E qui, anche forse troppo fedele al programma di un pamphlet, ecco la descrizione di un ministro Brunetta il cui vero obiettivo "non è portare giustizia e meritocrazia nella pubblica amministrazione" bensì "denigrare il lavoro, umiliarlo, ridicolizzarlo e sbugiardarlo, mostrare il lato infido e un po' ignobile dei lavoratori pubblici".
Ma, intenzioni di Brunetta a parte, ecco che si delinea un altro fenomeno: se un tempo il problema era provvedere a chi lavorava un sufficiente tempo libero, oggi viene regalato a tutti un 'tempo vuoto', quello dell'attesa di un primo impiego, tra un licenziamento e la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo, tra l'inizio e la fine di un periodo di cassa integrazione. Insomma, come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato, ma sopportato come un incidente dalla vita ormai brevissima, quando una miracolosa automazione senza neppure più operatori alla consolle avrà risolto i problemi economici, e tutti godremo di una libera e infinita circolazione di 'subprimes'?
Figuriamoci il sollievo di molti di noi quando hanno scoperto che era finito il periodo in cui gli operai non avevano nulla da perdere tranne le proprie catene, perché ormai, avendo da perdere il televisore, il frigorifero, la piccola cilindrata e la visione di molte veline ogni sera, votavano per Berlusconi e Bossi - deviando il proprio sdegno dai capitalisti agli extracomunitari. Il comportamento dei proletari di un tempo era diventato quello tipico del sottoproletariato. Finalmente, si era esclamato, non dobbiamo più farci carico della classe operaia! Sono più poveri adesso di alcuni anni fa? Sono loro che hanno preferito le ronde ai sindacati. Liberi dal ricatto della classe operaia scriveremo ora non solo su Dante, ma persino sul Burchiello e, come il protagonista di 'A rebours' metteremo sul nostro tappeto persiano una tartaruga dal carapace incrostato di rubini, turchesi, acquamarine e crisoberilli verde asparago.
Malumori a parte, la classe operaia è diventata invisibile: gli operai, come ha detto Ilvo Diamanti, non fanno più massa critica e ci accorgiamo che ci sono solo quando muoiono sul lavoro. Trovo questa citazione quasi all'inizio di un irritatissimo e amarissimo pamphlet di Furio Colombo, 'La paga' (Saggiatore, 14). Dal titolo e da una immagine piuttosto stakanovista di copertina si penserebbe a un altro discorso sulla classe operaia, ma in questo libello non si nomina la classe operaia come se, ormai, con la squalifica dei sindacati, la fine delle ideologie, la nascita di nuovi partiti che hanno assorbito da destra le scontentezze che erano un giorno di sinistra, queste denominazioni avessero perso ogni interesse. In questo libro non si parla della scomparsa della classe dei lavoratori, ma della scomparsa del lavoro.
L'idea può apparire bizzarra, ma a ben pensarci tra deregolamentazione, crollo degli imperi finanziari, caduta delle Borse, manager che abbandonano l'ufficio con la scatola di cartone sotto il braccio e un bonus stratosferico nel portafoglio, si diffonde dappertutto, nelle dichiarazioni ufficiali e nella politica spicciola, il disprezzo del lavoro. Eccessivo pare sempre alla Confindustria il costo del lavoro, le aziende fanno il massimo per dissolvere i grandi centri produttivi in una pluralità di persone che non si conoscono tra loro, siedono in provincia a un computer, e lavorano a progetto senza garanzie di continuità, la trasformazione delle grandi compagnie da luoghi dove si produceva (e quindi si aveva bisogno di manodopera specializzata) a pacchetti da vendere e rivendere, e quindi più appetibili sul mercato finanziario quanto più si sono alleggerite dei costi del lavoro, ha reso accettabile senza indignazione e stupore le campagne contro i sindacati (ormai considerati sanguisughe parassitarie) e persino contro gli stessi lavoratori. E qui, anche forse troppo fedele al programma di un pamphlet, ecco la descrizione di un ministro Brunetta il cui vero obiettivo "non è portare giustizia e meritocrazia nella pubblica amministrazione" bensì "denigrare il lavoro, umiliarlo, ridicolizzarlo e sbugiardarlo, mostrare il lato infido e un po' ignobile dei lavoratori pubblici".
Ma, intenzioni di Brunetta a parte, ecco che si delinea un altro fenomeno: se un tempo il problema era provvedere a chi lavorava un sufficiente tempo libero, oggi viene regalato a tutti un 'tempo vuoto', quello dell'attesa di un primo impiego, tra un licenziamento e la sottoscrizione di un nuovo contratto a tempo, tra l'inizio e la fine di un periodo di cassa integrazione. Insomma, come chiedere di riconoscersi come classe, con problemi comuni, a chi, se pure ancora lavora, lo fa sempre meno insieme agli altri, per periodi sempre più brevi e vede il lavoro non più onorato, ma sopportato come un incidente dalla vita ormai brevissima, quando una miracolosa automazione senza neppure più operatori alla consolle avrà risolto i problemi economici, e tutti godremo di una libera e infinita circolazione di 'subprimes'?
«L'Espresso» del 10 luglio 2009
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