08 luglio 2007

Umberto Eco: la mia biblioteca a misura d’uomo

La casa dei libri come macchina per il tempo libero: "Voglio un posto che faccia venir voglia di andarci"
di Umberto Eco
Dopo la prima edizione del 2002, Allemandi editore ripubblica «Il fascino delle biblioteche» (pagg. 160, 109 immagini a colori, euro 50) con le fotografie di Massimo Listri e un testo di Umberto Eco, di cui pubblichiamo un estratto.
Obbligato dal gentile invito che ho ricevuto a riflettere su cosa si possa dire su una biblioteca, ho cercato di stabilire quali siano i fini certi o incerti di una biblioteca. Ho fatto una breve ispezione nelle sole biblioteche a cui avevo accesso, perché sono aperte anche nelle ore notturne, quella di Assurbanipal a Ninive, quella di Policrate a Samo, quella di Pisistrato ad Atene, quella di Alessandria, che faceva già nel III secolo 400 mila volumi e poi nel I secolo, con quella del Serapeo, faceva 700 mila volumi, poi quella di Pergamo e quella di Augusto (al tempo di Costantino c’erano 28 biblioteche a Roma). Poi ho una certa dimestichezza con alcune biblioteche benedettine, e ho cominciato a chiedermi quale sia la funzione di una biblioteca. Forse all’inizio, ai tempi di Assurbanipal o di Policrate era quella di raccogliere, per non lasciare in giro rotoli o volumi. In seguito credo abbia avuto la funzione di tesaurizzare: costavano, i rotoli. Quindi, in epoca benedettina, trascrivere: la biblioteca quasi come zona di passo, il libro arriva, viene trascritto, l’originale o la copia ripartono.

Credo che in qualche epoca, forse già tra Augusto e Costantino, la funzione di una biblioteca fosse anche quella di far leggere, e quindi, più o meno, di attenersi al deliberato dell’Unesco che ho visto nel volume arrivatomi oggi, in cui si dice che uno dei fini della biblioteca è di permettere al pubblico di leggere i libri. Ma in seguito credo siano nate delle biblioteche la cui funzione era quella di non far leggere, di nascondere, di celare il libro. Naturalmente, queste biblioteche erano anche fatte per permettere di ritrovare. Noi siamo sempre stupiti dall’abilità degli umanisti del Quattrocento che ritrovano i manoscritti perduti. Dove li ritrovano? Li trovano in biblioteca. In biblioteche che in parte servivano per nascondere, ma servivano anche per fare ritrovare. E poi il problema finale; bisogna scegliere se si vuole proteggere i libri o farli leggere. Non dico che bisogna scegliere di farli leggere senza proteggerli, ma non bisogna neanche scegliere di proteggerli senza farli leggere.

E non dico neanche che bisogna trovare una via di mezzo. Bisogna che uno dei due ideali prevalga, poi si cercherà di fare i conti con la realtà per difendere l’ideale secondario. Se l’ideale è far leggere il libro, bisogna cercare di proteggerlo il più possibile, ma sapendo i rischi che si corrono. Se l’ideale è proteggerlo, si dovrà cercare di lasciarlo leggere, ma sapendo i rischi che si corrono. In questo senso il problema di una biblioteca non è diverso da quello di una libreria. Ci sono ormai due tipi di librerie. Quelle molto serie, ancora con scaffali di legno, dove appena entrati si è avvicinati da un signore che dice: «Cosa desidera?», dopo di che ci si intimidisce e si esce: in queste librerie si rubano pochi libri. Ma se ne acquistano meno.

Poi ci sono le librerie a supermarket, con scaffalatura di plastica dove, specie i giovani, girano, guardano, si informano su quel che esce, e qui si rubano moltissimi libri, benché si mettano i controlli elettronici. Potete sorprendere lo studente che dice: «Ah, questo libro è interessante, domani vado a rubarlo». Poi si passano informazioni tra di loro, per esempio: «Guarda che alla libreria Feltrinelli, se ti beccano menano». «Ah, bé, allora vado a rubare alla Marzocco dove adesso hanno aperto un nuovo supermarket». Eppure chi organizza le reti di librerie sa che, a un certo punto, la libreria ad alto tasso di furti è però anche quella che vende di più. Si rubano molte più cose in un supermarket che in una drogheria, ma il supermarket fa parte di una grande catena capitalistica, mentre la drogheria è piccolo commercio con una dichiarazione di redditi molto ridotta.

Ora, se trasformiamo questi, che sono problemi di reddito economico, in quelli di reddito culturale, di costi e di vantaggi sociali, lo stesso problema si pone quindi anche per le biblioteche: correre maggiori rischi sulla preservazione dei libri, ma avere tutti i vantaggi di una loro più ampia circolazione. Cioè se la biblioteca è, come vuole Borges, un modello dell’Universo, cerchiamo di trasformarla in un universo a misura d’uomo, e, ricordo, a misura d’uomo vuol dire anche gaio, anche con la possibilità del cappuccino, anche con la possibilità per i due studenti in un pomeriggio di sedersi sul divano e, non dico darsi a un indecente amplesso, ma consumare parte del loro flirt nella biblioteca, mentre si prendono o rimettono negli scaffali alcuni libri di interesse scientifico, cioè una biblioteca in cui faccia venire voglia di andarci e si trasformi poi gradatamente in una grande macchina per il tempo libero, com’è il Museum of Modern Art.
So che l’Unesco è d’accordo con me: «La biblioteca... deve essere di facile accesso e le sue porte devono essere spalancate a tutti i membri della comunità che potranno liberamente usarne senza distinzioni di razza, colore, nazionalità, età, sesso, religione, lingua, stato civile e livello culturale». Un’idea rivoluzionaria. E l’accenno al livello culturale postula anche un’azione di educazione, di consulenza e di preparazione. E poi l’altra cosa: «L’edificio che ospita la biblioteca pubblica dev’essere centrale, facilmente accessibile anche agli invalidi e aperto a orari comodi per tutti. L’edificio e il suo arredamento devono essere di aspetto gradevole, comodi e accoglienti; ed è essenziale che i lettori possano accedere direttamente agli scaffali». Riusciremo a trasformare l’utopia in realtà?
«La Stampa» del 25 maggio 2007

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