Il romanziere turco, Nobel per la letteratura, rivela i segreti del suo lavoro
di Giovanni Mariotti
«Bisogna fuggire la gente. E trovare il coraggio di chiudersi in una stanza»
La valigia di mio padre di Orhan Pamuk raccoglie tre conferenze tenute dal grande romanziere turco fra l’ottobre del 2005 e il dicembre del 2006: la prima, pronunciata in Germania, a Francoforte, in occasione del conferimento di un importante premio, il Friedenpreis; la seconda, alla University of Oklahoma, nell’ambito della Puterbaugh Conference; l’ultima a Stoccolma, nell’occasione liturgica dell’assegnazione del Nobel. «Ho sempre dovuto trascorrere lunghe ore da solo, chiuso in una stanza», dichiara Pamuk a Francoforte. E in Oklahoma: «Quando sono lontano da casa e mi è impossibile tornare nella mia stanza e rimanere solo, l’unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno». Infine, a Stoccolma: «Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: si deve anzitutto provare l’impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la consuetudine, la quotidianità, e a chiudersi in una stanza». Tre conferenze, e un tema che ricorre. Si direbbe che Pamuk non possa parlare di se stesso, della propria opera e della letteratura in generale, senza rendere omaggio alle pareti che «per trent’anni» l’hanno custodito, protetto e separato dagli altri. Consideriamo le circostanze. La strana stagione degli inviti inattesi, dei riconoscimenti e della consacrazione ha proiettato lo scrittore davanti a un pubblico di sconosciuti, in un Paese straniero. Centinaia di visi lo scrutano con curiosità, forse cercando qualche congruenza tra la sua fisionomia, e l’idea che, attraverso la lettura dei libri, se n’erano fatta. L’occasione è amabilmente sociale, ma l’uomo che parla da una pedana prova un lieve stupore, ben sapendo che quell’accoglienza lusinghiera è la rimunerazione e il beneficio di una lunga solitudine. Una scelta che l’aveva allontanato dagli altri l’ha misteriosamente riportato verso gli altri. Riconoscerlo è un atto di onestà, un dovere, forse un bisogno psicologico. «Quando ero giovane» dice Pamuk agli studenti dell’Università di Oklahoma «credevo che chi mi diceva che ero "staccato dalla vita" indicasse questo modo di vivere "mezzo morto". Si potrebbe anche dire mezzo fantasma. Mi è accaduto di pensare di essere un morto e di cercare di animare il cadavere che avevo dentro con la letteratura». Testimonianza preziosa, specie in un mondo come il nostro, dove gli uomini sembrano avere dimenticato i vantaggi delle inettitudini e delle malinconie, e gli strani ghirigori del destino. Sfuggire all’assedio di chi gli ripete che gli «altri» e la «vita» gli sono necessari forse non è mai stato, per un giovane, difficile come oggi. Viviamo in una società che condanna in modo unanime il gesto di chi sceglie di stare solo in una stanza (come consigliava Pascal). Se in un bambino o in un ragazzo vengono rilevate inclinazioni pensierose, scarsa socievolezza, mancanza di interessi sessuali evidenti, risultati scolastici mediocri, un’ostinata predilezione per la lettura di opere bizzarre o per argomenti o attività stravaganti, súbito intorno a lui le fronti si corrugano, e la coppia genitoriale, il corpo docente, la corporazione degli psicologi si affrettano a organizzare apposite riunioni. Prendere visione diretta della personcina è a volte impossibile, visto che da giorni se ne sta chiusa in camera, magari (non necessariamente, ma può accadere, e forse qualche volta è accaduto davvero) leggendo le peripezie oziose e interminabili di un Dickens enorme o de Le mille e una notte, oppure semplicemente fantasticando. Su un punto tutti si trovano d’accordo: il problema c’è, e va affrontato. I virus della solitudine e della malinconia devono essere debellati sin dai primi sintomi. La riprovazione generale, a volte aiutata dalla fragilità di inclinazioni appena germogliate, ottiene quasi sempre i suoi effetti: il ragazzo prima o poi trova un giro di amici, entra a far parte di una ghenga, di un branco. A quel punto subentrano, negli insonni e ossessionati genitori, altre paure, anch’esse oggetto di discussione con una fitta rete di consulenti. Ma i pericoli nati dalla socializzazione (droghe, incidenti del sabato sera, timori relativi a pratiche sataniche o a stupri di gruppo...) appaiono probabilmente meno gravi della tendenza alla solitudine. Cercando di ricostruire la propria esperienza, sin da quando, ragazzo privilegiato (per la presenza di un padre indulgente), soffriva se qualcuno lo accusava di essere «staccato dalla vita», la prima cosa che viene in mente al Nobel Pamuk non è né il debito eventuale verso un Paese o a una tradizione, né gli sforzi di sviluppare un talento probabilmente posseduto sin dall’inizio (senza saperlo, e quindi soffrendo di molti dubbi dolorosi), né un’idea o un messaggio di cui sia il portatore, bensì il nudo gesto fondante di chiudere una porta dietro le spalle. Naturalmente non a tutti tocca l’esito finale dei riconoscimenti e delle apoteosi; molti si chiudono nella loro camera e lì restano, sino alla fine. Ma quella scelta non impoverisce per niente la loro esperienza: giacché, come scrisse Montaigne (uno dei primi scrittori «soli in una stanza», almeno per tutta una parte della sua vita) «ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione». Uno scrittore è una sorta di spettro. Corteggia e manifesta la morte anticipata che è in lui attraverso la pratica della letteratura. Parola imbarazzante, quest’ultima: imbarazzante e anche un po’equivoca. Giacché per molti «letteratura» è ancora una mera arte dello scrivere, una «retorica»; mentre, attraverso un processo forse comparabile al sorgere del monachesimo, e la progressiva separazione da altre scritture (per esempio, quella giornalistica), la letteratura, come si ricava anche dalle parole di Pamuk, è diventata ben altro: un modo di essere.
La Valigia di mio padre di Orhan Pamuk (traduzione di Semsa Gezgin) è edito da Einaudi (pagine 72, 8). Orhan Pamuk, ha vinto il Nobel per la letteratura 2006. Tra i suoi libri si ricordano: Neve, Il castello bianco, Istanbul, Il mio nome è rosso, la casa del silenzio, La nuova vita (tutti editi da Einaudi) e Voci di Istanbul. Scritti e interviste (Datanews)
«Corriere della sera» del 12 giugno 2007
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