Gli immigrati musulmani trascineranno il Vecchio continente verso una deriva fondamentalista? Nient’affatto, anzi: per il sociologo Stefano Allievi l’incontro tra civiltà già in atto all’interno della Ue è una grande chance per gli stessi seguaci del Corano «L’essere minoranza costringe i maomettani a ripensarsi entro un mondo democratico e plurale. Si tratta di un laboratorio eccezionale, con libertà di pensiero e di ricerca, intellettuale e teologica, assai più garantite che nei Paesi d’origine»
di Stefano Allievi
«L'essere minoranza costringe i maomettani a ripensarsi entro un mondo democratico e plurale. Si tratta di un laboratorio eccezionale, con libertà di pensiero e di ricerca, intellettuale e teologica, assai più garantite che nei Paesi d'origine»
Oggi ci sono nell'Europa comunitaria, secondo le varie fonti, circa quindici milioni di musulmani. Diciamo musulmani per la brevità: in realtà si tratta di provenienti da Paesi musulmani e loro discendenti, anche da più di una generazione. E il loro tasso di «musulmanità» è oggetto di analisi, non presupposto dato per scontato, esattamente come accade per gli autoctoni. Tuttavia, ci sono. E sono qui per restare. Molti, del resto - la maggioranza, in Paesi come la Francia o la Gran Bretagna - sono già cittadini di questa nuova Europa, e molti altri, in tutta Europa, sono destinati a diventarlo al compimento della maggiore età, per scelta, se non per automatismi legislativi ormai sempre meno tali: europei di religione islamica, quindi, non musulmani immigrati provenienti da altrove, e che altrove potrebbero, nei sogni di alcuni e negli incubi di altri, ritornare. Con i quali sempre più dovremo confrontarci. In qualche modo allucinati e impauriti dalla dimensione della continuità, dalla paura del passato e di un presente delle società islamiche che legittimamente non ci piace, non ci accorgiamo di quanto l'islam d'Europa assomigli sempre meno a quello dei Paesi d'origine, o meglio vi sia, certo, una continuità religiosa, ma all'interno di un cambiamento culturale assai evidente. La trasformazione è radicale. In primo luogo, perché l'islam in Europa è minoranza. E questo cambia tutto, sul piano sociale, culturale, politico e persino teologico. Perché il musulmano d'Europa deve abituarsi a pensare a se stesso come individuo, per certi versi anche come comunità, ma non comunità dominante, senza avere in mano le leve della legislazione e del potere. Una condizione che l'islam fa fatica a concepire, e che rende concettualmente inapplicabile l'idea stessa di legge religiosa, di shari'a. Una condizione che costringe il musulmano e l'islam a ripensarsi, all'interno di un mondo culturalmente e religiosamente plurale, democratico secolarizzato e individualizzato, che gli garant isce dei diritti ma non tutti, che lo riconosce ma nello stesso tempo lo teme, che più che accettarlo probabilmente lo subisce, ma non può comunque liberarsene. Quel mondo che per gli immigrati è il mondo in cui, dopo tutto, hanno scelto di vivere, e che per i loro figli e nipoti è, in tutta naturalezza, il loro mondo. In Occidente ci si mischia. Inevitabilmente. Ordinariamente. Quotidianamente. Non è nemmeno questione di volontà: semplicemente accade. Da questo punto di vista, l'Europa costituisce un laboratorio eccezionale: libertà d'associazione e di manifestazione del pensiero, uguaglianza di diritti tra uomo e donna, situazione di concreta pluralità culturale e religiosa come norma di legge e come normalità sociale, elevati livelli di mixité , un'elaborazione intellettuale e teologica assai più libera che nei Paesi dell'islam d'origine, maggiori possibilità di emergere, per leadership intraprendenti e non convenzionali, sono altrettanti elementi che fanno dell'Europa non solamente una sfida, ma anche una opportunità importante per tutto l'islam. Un islam che in Europa vede attuarsi trasformazioni tanto rapide quanto radicali e persino spettacolari. Perché, innanzitutto, è plurale al suo interno: un musulmano, da qualunque Paese e tradizioni provenga, si trova in Europa confrontato, all'interno della medesima moschea o di una qualunque associazione, in ogni caso nei giochi plurali dei tentativi di rappresentanza e di visibilità nello spazio pubblico, con altre tradizioni, altre modalità di vivere, di praticare, di dire e di pensare quello stesso islam che credeva uno e scopre invece fortemente plurale, diviso, frammentato, internamente conflittuale, anche. E questo accelera ulteriormente i processi di riflessività e di trasformazione interna. Ma anche un islam che è e rimane in interazione e in interrelazione profonda come le sue terre d'origine, grazie all'esistenza di «comunità trasnazionali», fortemente aiutate dalla diminuzione del costo e delle difficoltà dei trasporti, che offre la possibilità di viaggi di ritorno più brevi e più frequenti, e dall'innovazione tecnologica (da Internet alle Tv satellitari) che consente l'identificazione permanente a sistemi culturali di riferimento ormai de-localizzati. Questo insieme di fattori apre alla possibilità di mantenere interrelazioni forti con la famiglia allargata e la cultura d'origine, ma anche di praticare, talvolta di teorizzare, la possibilità e i benefici di un islam europeo sganciato dai legami etnici e tradizionali. A questi aspetti si aggiunge la constatazione che un musulmano d'Europa è mediamente più alfabetizzato, più colto, con un reddito pro-capite più alto, con possibilità di scelta e con opportunità di inserimento maggiori rispetto al suo correligionario rimasto nel Paese d'origine. Non solo: ha a disposizione mezzi e possibilità di elaborazione culturale, di confronto teologico e di pratiche spirituali - e stiamo parlando solo di quelle interne alle tante declinazioni possibili dell'islam, per non parlare di quelle che lo portano a contatto con altre tradizioni o altre correnti di pensiero, religiose o meno - molto maggiori di chi vive nella maggior parte dei Paesi musulmani. Il che, insieme ai diritti indisponibili di cui è comunque titolare, specie se cittadino, e almeno quando è uscito dalla fase più dura di schiavitù del bisogno, gli fa perdere abbastanza rapidamente - dal momento, almeno, in cui se ne rende conto - ogni e qualsiasi senso di inferiorità rispetto all'islam dei Paesi d'origine, soprattutto a seguito del passaggio dalla prima alla seconda generazione. Produce anzi, in molti casi, una sorta di fierezza per un islam de-etnicizzato, de-tradizionalizzato, a torto o a ragione considerato come più puro, più strettamente religioso, che comincia ad esercitare un certo interesse, e un certo fascino, anche tra i musulmani, soprattutto giovani, che vivono in Paesi islamici. Un fatto, questo, di cui solo pochi europei si sono accorti, del cui valore aggiunto pochissima politica si rende conto, ma che pure è un fattore di lungo periodo che già sta cominciando a cambiare, e cambierà ulteriormente, gli equilibri religiosi, e in prospettiva geopolitici ed economici, tra i vari islam. E di cui l'Europa potrebbe seriamente e intelligentemente beneficiare. Non solo per meglio integrare i suoi musulmani, ma per meglio e più profittevolmente rapportarsi con l'islam nel suo complesso.
«Avvenire» del 27 giugno 2007
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