Legge sulle intercettazioni
di Vittorio Grevi
Ferma restando la imprescindibile priorità politica del «progetto Mastella» sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, in rapporto alla nota scadenza del prossimo 31 luglio, le polemiche degli ultimi giorni inducono a domandarsi come mai non faccia passi avanti al Senato il disegno di legge governativo sulla disciplina delle intercettazioni telefoniche. Un disegno approvato oltre due mesi fa dalla Camera a larghissima maggioranza, nel quale si affronta con accenti nuovi il delicato rapporto tra l’impiego processuale di tali intercettazioni e il divieto di pubblicazione dei relativi risultati. Anzitutto questo disegno di legge dà per la prima volta specifico risalto alla necessità di evitare che i risultati delle intercettazioni telefoniche possano entrare nel circuito processuale, allorché non siano pertinenti al tema delle indagini. In questa prospettiva, infatti, vengono previsti alcuni ben precisi filtri selettivi, evidentemente diretti a tutelare la riservatezza delle conversazioni intercettate, le quali risultino estranee alle esigenze probatorie. In particolare, vi si stabilisce che il pubblico ministero, terminate le operazioni di intercettazione, depositi a disposizione dei difensori - diversamente da oggi - soltanto la documentazione delle conversazioni ritenute «rilevanti» ai fini delle indagini, conservando invece in un apposito «archivio riservato» quelle «prive di rilevanza», in quanto «riguardanti esclusivamente fatti o circostanze estranei alle indagini». Con riferimento alle conversazioni così depositate (nonché alle altre eventualmente indicate dai difensori, dopo averle ascoltate tra quelle custodite nel suddetto archivio) sarà poi il giudice, sulla base di un ulteriore giudizio di rilevanza, avendo sentito le parti, a stabilire quali debbano venire acquisite agli atti del procedimento. E solo in tal caso ne verrà disposta la trascrizione, con l’ovvio divieto di trascrivere le «parti di conversazioni riguardanti fatti o circostanze estranei alle indagini», e comunque con la previsione che debbano esserne espunti i nomi o gli elementi identificativi «di soggetti estranei alle indagini». Risulta dunque da questa minuziosa disciplina (nonché da quella dettata per il caso di utilizzo anticipato delle intercettazioni, cioè prima dell’ordinario deposito), come il disegno di legge preveda una triplice rigorosa barriera selettiva, finora inesistente, allo scopo di assicurare che solo le intercettazioni rilevanti ai fini probatori possano confluire nelle carte del procedimento. Dopodiché, tuttavia, riesce difficile comprendere come mai, una volta venuto meno il segreto sui risultati delle intercettazioni così selezionate (ad esempio perché depositate a conoscenza dei difensori), debba invece permanere un rigido divieto di pubblicazione delle medesime anche «nel contenuto», e perfino quando esse siano state poste a fondamento di un provvedimento cautelare. Un divieto di pubblicazione così esteso appare francamente eccessivo, in quanto riferito ad intercettazioni non più coperte da segreto, e per definizione «rilevanti», cioè relative a fatti o circostanze pertinenti alle indagini (se tali non fossero, ovviamente, occorrerebbe prevedere un’apposita figura di illecito disciplinare a carico dei magistrati responsabili). A parte le prevedibili difficoltà di concreta tenuta di un simile divieto, infatti, ne potrebbero scaturire anche situazioni paradossali, durante l’itinerario processuale. Per esempio, a causa della impossibilità di conoscere le ragioni di certi provvedimenti (anche di natura carceraria) adottati dal giudice sulla base di intercettazioni, del cui contenuto sarebbe vietata la pubblicazione. A maggior ragione, poi, in ipotesi del genere appare esorbitante la sanzione (ammenda da 10 mila a 100 mila euro, in alternativa all’arresto fino a 30 giorni) prevista per il giornalista autore della pubblicazione «arbitraria» degli atti in questione. Una sanzione già di per sé incongrua (per via della sproporzione interna tra l’entità dell’ammenda e l’entità della sanzione alternativa dell’arresto), ma soprattutto irragionevole, nella misura in cui si riferisca anche ad atti non più segreti, ivi comprese le intercettazioni, per i quali possa essere importante la conoscibilità da parte dell’opinione pubblica. In realtà, un siffatto divieto di pubblicazione ha senso solo quando gli atti di indagine siano ancora segreti. Quando sia caduto il segreto, e beninteso tali atti siano rilevanti, il diritto all’informazione deve prevalere.
«Corriere della sera» del 21 giugno 2007
Nessun commento:
Posta un commento