Che fine hanno fatto le polemiche contro l’influenza del «molle» cattolicesimo sul carattere nazionale?
di Pierluigi Battista
di Pierluigi Battista
Accusano la Chiesa cattolica di essersi incattivita. Di nascondere il suo volto misericordioso. Di snaturare la sua indole accogliente e benevola con un’arcigna intransigenza sulle questioni «eticamente sensibili», con la severità eccessiva sulle unioni di fatto, e addirittura con la negazione del conforto religioso ai funerali di Piergiorgio Welby, come se nella battaglia contro l’eutanasia le astrattezze dottrinarie fossero premiate a scapito della pietà per un uomo colpevole soltanto di aver voluto mettere fine alla propria sofferenza terrena. Ma il pensiero laico italiano non ha sempre accusato la Chiesa del contrario? Non è stato forse detto che a causa del lassismo morale cattolico, della sua indulgenza perdonista, della sua arrendevolezza sui princìpi, della sua smodata accondiscendenza verso il peccato e i peccatori, l’Italia ha trovato un ostacolo insormontabile per mettersi al passo con le altre nazioni moderne? Nel lamento sull’Italia che non ha conosciuto la prova di maturità di una rivoluzione protestante e che si è lasciata docilmente modellare dall’ideologia e dalla mentalità della Controriforma si è costruito nel corso del tempo persino un canone recriminatorio di interpretazione storica e di lettura del sempre tarato «carattere nazionale» degli italiani. Non solo, come ha giustamente scritto Eugenia Roccella sul Giornale, l’accusa al cattolicesimo di essere troppo «sensibile di fronte alla fragilità umana» e di aver favorito un atteggiamento verso la vita e il mondo improntato a «scarso rigore» con esiti di irrimediabile e perciò deprecabile «ipocrisia». Ma soprattutto la denuncia accorata delle ripercussioni negative che la sensibilità cattolica avrebbe avuto sulla tempra morale degli italiani. Attraverso la mediazione gobettiana si è autorevolmente imposto lo schema di una storia italiana menomata da una «mancanza» originaria, quella di una Riforma protestante che avrebbe potuto irrobustire la fibra di un popolo che invece, traviato dai suoi preti, ha preferito le assoluzioni del confessionale anziché il rigore etico, il bene della famiglia invece del rispetto della legge, il rito pubblico barocco e ipocrita a scapito dell’interiorità, la convenzione e la rappresentazione al posto della fede autentica. Non avendo avuto un Martin Lutero capace di sfidare la corrotta mollezza romana affiggendo le sue 95 tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, l’Italia si sarebbe ritrovata infiacchita e senza il nerbo di un’aspra «etica protestante», causa prima della fragilità del suo Stato, del suo capitalismo, del suo vivere civile, del suo spirito sociale. Il pensiero laico potrebbe allora mettersi d’accordo con se stesso. E, sempre che non auspichi l’abolizione tout court di un libero e non costrittivo pensiero cattolico sulle cose del mondo (che però sarebbe indice di un troppo debole attaccamento alla tolleranza da parte degli epigoni di Voltaire), potrebbe chiarire se preferisce la mediazione con un cattolicesimo indulgente, bonario, ipocrita, lassista, oppure l’antagonismo a un cattolicesimo geloso della propria identità, battagliero, tenace sui princìpi che professa, anche arcigno, se necessario. E riflettere sull’eventualità che una Chiesa militante e combattiva possa essere addirittura un vantaggio per l’Italia e per chi crede che il conflitto delle idee sia un bene, e non un fastidioso intralcio, in una democrazia liberale insofferente all’unanimismo e al conformismo. In una competizione in cui a contendersi il primato si sia in due, ciascuno con le proprie ragioni. Non sarebbe la rivoluzione protestante che ci è mancata, ma un utile antidoto alla tentazione del pensiero unico, forse sì.
«Corriere della sera» del 30 aprile 2007
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