Legge anti-doping, 10 anni dopo: il problema è educativo e culturale
di Umberto Folena
C’era un bambino che voleva svuotare l’oceano con il secchiello. E c’era chi voleva debellare il doping con una legge.
Dieci anni dopo la legge 376/2000, che poneva l’Italia all’avanguardia mondiale nella lotta contro lo sport drogato, truffaldino, vigliacco, più di qualcuno lo pensa: fatica nobile, intento virtuoso, bel secchiello davvero, legge lungimirante di cui andare orgogliosi... Ma neppure il più volenteroso e determinato dei bambini riuscirà mai a svuotare l’oceano.
È vero? È una lotta vana? In effetti tutto aumenta: aumentano i controlli, gli atleti smascherati ma anche il ricorso alle sostanze dopanti, tra professionisti e dilettanti, perfino tra gli amatori.
L’olimpionica Diana Bianchedi, in prima linea nella sfida al doping, punta sulla scuola, per «dire ai giovani che si può vincere anche senza doparsi» (ne parliamo a pagina 29 ). Intento ammirevole e opportuno. Ma non sufficiente. Perché il doping chiama in causa la legge e i controlli; l’educazione; ma soprattutto la cultura, da intendersi come l’insieme dei modi di pensare e quindi di vivere.
Prendiamo il ciclismo, da sempre in prima fila sul banco degli imputati, tanto da ritenersi perseguitato. Sono sensazioni. Sono bisbigli. Sono confidenze di amici e conoscenti. Pedali a 20-25 all’ora sulla ciclabile e pensi che per un over 50 chiuso per tutta la settimana in redazione sia già un bell’andare. I polmoni pompano, il cuore tictocca. Di più non vai, per non finire fuori giri. Ma all’improvviso una folata di vento quasi ti sposta: sono una mezza dozzina di sessantenni che filano in posizione aerodinamica a 35-40 orari.
Come faranno? Tanto allenamento, d’accordo. Ma sono dei veri ironman, vecchietti d’acciaio, che incroci più avanti al bar mentre tracannano birrini e grappini raccontandosi le imprese alle gran fondo. Complimenti. E che dire di quei genitori che ti confidano di come i figli adolescenti, regolarmente in coda al gruppo, siano stati incoraggiati dall’allenatore a concedersi un 'aiutino', unica chance in un gruppo in gran parte strafatto di 'aiutini'? Genitori spingono i figli ad 'aiutarsi', questa è la tristissima sensazione. E allora non c’è Bianchedi né scuola che tengano.
La sensazione, solida più d’una certezza basata su prove e documenti, è che il doping sia ritenuto da troppi italiani una pratica tutto sommato accettabile; una sorta di peccato veniale, necessario per non restare tagliato fuori. Il pedaggio da far pagare al proprio fisico per essere competitivo. La certezza è che il doping non sarà vinto finché non sarà considerato socialmente esecrabile.
Finché non verrà riconosciuto dalla grande maggioranza degli italiani per quella schifezza che è. Il problema non riguarda soltanto il doping, ma altre pratiche sleali e pericolose, per sé e per gli altri, come l’abuso di alcol (e che sarà mai una sbronza nel week end? I genitori che da giovani si sbronzavano chiudono un occhio di fronte alle sbronze dei figli); la guida irresponsabile (quando mai chi ti si incolla a dieci centimetri dal posteriore, in autostrada a 130 orari, e lampeggia, e fa la faccia feroce, e ti passa a 200 sarà multato?); e soprattutto la cocaina, l’aiutino dello stressato o del fuori giri che pensa: così fan tutti... Sono pratiche non abbastanza esecrate, anzi persino tollerate.
Il doping e altre forme di dipendenza – dal gioco, alla velocità, all’alcol... – sono un problema culturale. Fanno parte della vita quotidiana e qui la battaglia va combattuta e vinta. Il doping dei grandi professionisti è la classica punta dell’iceberg: per far affondare la punta, occorre demolire la base. «Il doping è un insulto alla tua persona», recita uno degli slogan del Coni. Bellissimo perché centra il problema: in gioco sono la persona, la sua dignità, la sua integrità, la sua relazione con altre persone con cui gareggia. È in gioco l’amore per se stessi, premessa per poter amare gli altri. E vincere senza vergogna, e perdere senza rimpianti.
Dieci anni dopo la legge 376/2000, che poneva l’Italia all’avanguardia mondiale nella lotta contro lo sport drogato, truffaldino, vigliacco, più di qualcuno lo pensa: fatica nobile, intento virtuoso, bel secchiello davvero, legge lungimirante di cui andare orgogliosi... Ma neppure il più volenteroso e determinato dei bambini riuscirà mai a svuotare l’oceano.
È vero? È una lotta vana? In effetti tutto aumenta: aumentano i controlli, gli atleti smascherati ma anche il ricorso alle sostanze dopanti, tra professionisti e dilettanti, perfino tra gli amatori.
L’olimpionica Diana Bianchedi, in prima linea nella sfida al doping, punta sulla scuola, per «dire ai giovani che si può vincere anche senza doparsi» (ne parliamo a pagina 29 ). Intento ammirevole e opportuno. Ma non sufficiente. Perché il doping chiama in causa la legge e i controlli; l’educazione; ma soprattutto la cultura, da intendersi come l’insieme dei modi di pensare e quindi di vivere.
Prendiamo il ciclismo, da sempre in prima fila sul banco degli imputati, tanto da ritenersi perseguitato. Sono sensazioni. Sono bisbigli. Sono confidenze di amici e conoscenti. Pedali a 20-25 all’ora sulla ciclabile e pensi che per un over 50 chiuso per tutta la settimana in redazione sia già un bell’andare. I polmoni pompano, il cuore tictocca. Di più non vai, per non finire fuori giri. Ma all’improvviso una folata di vento quasi ti sposta: sono una mezza dozzina di sessantenni che filano in posizione aerodinamica a 35-40 orari.
Come faranno? Tanto allenamento, d’accordo. Ma sono dei veri ironman, vecchietti d’acciaio, che incroci più avanti al bar mentre tracannano birrini e grappini raccontandosi le imprese alle gran fondo. Complimenti. E che dire di quei genitori che ti confidano di come i figli adolescenti, regolarmente in coda al gruppo, siano stati incoraggiati dall’allenatore a concedersi un 'aiutino', unica chance in un gruppo in gran parte strafatto di 'aiutini'? Genitori spingono i figli ad 'aiutarsi', questa è la tristissima sensazione. E allora non c’è Bianchedi né scuola che tengano.
La sensazione, solida più d’una certezza basata su prove e documenti, è che il doping sia ritenuto da troppi italiani una pratica tutto sommato accettabile; una sorta di peccato veniale, necessario per non restare tagliato fuori. Il pedaggio da far pagare al proprio fisico per essere competitivo. La certezza è che il doping non sarà vinto finché non sarà considerato socialmente esecrabile.
Finché non verrà riconosciuto dalla grande maggioranza degli italiani per quella schifezza che è. Il problema non riguarda soltanto il doping, ma altre pratiche sleali e pericolose, per sé e per gli altri, come l’abuso di alcol (e che sarà mai una sbronza nel week end? I genitori che da giovani si sbronzavano chiudono un occhio di fronte alle sbronze dei figli); la guida irresponsabile (quando mai chi ti si incolla a dieci centimetri dal posteriore, in autostrada a 130 orari, e lampeggia, e fa la faccia feroce, e ti passa a 200 sarà multato?); e soprattutto la cocaina, l’aiutino dello stressato o del fuori giri che pensa: così fan tutti... Sono pratiche non abbastanza esecrate, anzi persino tollerate.
Il doping e altre forme di dipendenza – dal gioco, alla velocità, all’alcol... – sono un problema culturale. Fanno parte della vita quotidiana e qui la battaglia va combattuta e vinta. Il doping dei grandi professionisti è la classica punta dell’iceberg: per far affondare la punta, occorre demolire la base. «Il doping è un insulto alla tua persona», recita uno degli slogan del Coni. Bellissimo perché centra il problema: in gioco sono la persona, la sua dignità, la sua integrità, la sua relazione con altre persone con cui gareggia. È in gioco l’amore per se stessi, premessa per poter amare gli altri. E vincere senza vergogna, e perdere senza rimpianti.
«Avvenire» del 14 dicembre 2010
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