La tragedia strumentalizzata in Parlamento da chi vuole che la morte sia passata dalla mutua
di Marcello Veneziani
Che pena vedere gli avvoltoi svolazzare sul corpo suicida di Mario Monicelli. Non è morto neanche da due giorni e già il suo gesto disperato e tremendo viene usato come testimonial per battaglie civili e propagande politiche.
Che brutto vedere la Camera dei deputati diventare palestra del tetro idealismo dei radicali e del lugubre antiberlusconismo veltroniano. Non avrei mai voluto trattare di bipolarismo davanti al morire. È barbarico, è disumano infierire sui morti, i morenti e i viventi fino a questo punto, usare la tragedia di un vecchio perduto nei labirinti della sua solitudine per legittimare una battaglia civile o, peggio, una contesa politica. Riconosco una luttuosa coerenza ai radicali, nelle loro battaglie intorno al morire, dall’eutanasia all’aborto, alla liberalizzazione della droga. Ma usare un suicidio per rilanciare ancora una volta l’eutanasia, mi pare assai brutto, e un po’ sciacallesco. Rivela l’obbiettivo finale dell’eutanasia che non è quello di staccare la spina a vite ridotte alla pura sopravvivenza biologica, come si vuol far credere attraverso due-tre casi estremi. Ma è l’idea che ciascuno possa decidere la propria morte semplicemente quando «non ce la fa più a vivere», come ha detto ieri alla Camera la radicale Rita Bernardini.
Dunque, non è più il caso estremo di una vita solo vegetativa per decretare la dolce morte; basta sentire il bisogno di uccidersi perché non ce la facciamo più. Nessuno ha diritto di giudicare le tempeste e le tragedie della vita altrui, e dunque il rispetto pietoso verso la scelta drastica del suicidio non deve mai venir meno. Chi ha deciso di compiere quel passo finale assume su di sé tutte le sue responsabilità davanti alla vita e alla morte, a chi gli sopravvive e se, crede, davanti a Dio. Quel che è barbarico, anche se si veste con le dolci vesti della civiltà e della libertà, è che la società, la sanità, la famiglia debbano offrirgli la corda per impiccarsi. Corda indolore, beninteso, per non farlo soffrire.
È umano, terribilmente umano che qualcuno decida di mettere fine ai suoi giorni ma è disumano, terribilmente disumano, immaginare una società, una civiltà che non si fondi sulla vita e non si preoccupi di difenderla ma diventi pubblica impresaria del libero morire. Chi si uccide e chi lo aiuta a uccidersi si assumano le loro responsabilità di fronte a Dio, se esiste, e davanti agli uomini. Senza salvacondotto sanitario; non vogliamo che la mutua ci passi la morte; se preferiamo un gesto estremo, che estremo sia. Un gesto da anarco ribelle, fuori dalla società. Se crediamo che quella sia la massima scelta di libertà, lasciamola alla libertà e non all’assistenza sanitaria pubblica. Si discuta sull’accanimento terapeutico su esistenze minime, incoscienti e solo artificiali. Ma una società non può legalizzare e agevolare il suicidio; smette di essere una società, diventa solo un dispositivo tecnico, un account inumano, per sbrigare al meglio le pratiche. A tale proposito devo ricordare le toccanti testimonianze raccolte da Bruno Vespa tra i familiari che hanno deciso di caricarsi la croce di una vita ridotta al lumicino e ora vivono la gioia di uno straordinario risveglio dei loro familiari dati per morti. Ti riconciliano con la vita e con la famiglia.
Meno ferale ma più brutta è stata la lugubre speculazione di Veltroni. Ricordare in Parlamento che al suicida Monicelli «non piaceva l’Italia d’oggi, la mortificazione della vita culturale» significa quasi adombrare, ma in quei modi obliqui, tipicamente veltroniani, riferiti sempre a misteriosi fattori climatici, un nesso tra il suicidio del grande regista e la polemica antiberlusconiana dei cineasti e della sinistra de piazza. Non farla così sporca, Walter, non mescolare la propaganda politica al cordoglio. Te lo dico con le parole di Totò: «’Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie... appartenimmo a’ morte».
Trovo tremenda l’eco di altri due suicidi in questi giorni, di un prete e di un diacono: il primo perché scoperto dalle Iene nelle sue debolezze omosessuali, il secondo perché ritenuto non idoneo al sacerdozio. È terribile come il parlare di suicidi porti altri suicidi. E mi spaventa dirlo mentre scrivo sul tema, seppure in direzione inversa rispetto al diffuso cupio dissolvi in gloria del suicidio.
Qui torno a Monicelli. Mi ha scosso sapere che anche lui ha avuto, come altri casi, il tragico esempio di un padre suicida. Quante volte i figli rimproverano ai loro genitori il volontario abbandono della vita e dei loro cari quando insorge la disperazione. E quante volte, tragicamente, a distanza di tanti anni, quei figli ripetono gli stessi errori dei padri o delle madri, per ragioni diverse ma in un intreccio doloroso d’amore e di protesta tardiva verso di loro. Si uccidono a volte contro i loro padri e le loro madri che li abbandonarono, ma si uccidono come loro. Questo dimostra che non siamo isole nel deserto del mondo, ma siamo legati pur sempre a qualcuno, veniamo da qualcuno, rispondiamo a qualcuno, echeggiano in noi tracce profonde, e dentro la nostra solitudine abitano impreviste comunanze. Amor fati, senza osare di insegnare nulla a nessuno. Addio maestro, e che almeno in questo non abbia discepoli.
Che brutto vedere la Camera dei deputati diventare palestra del tetro idealismo dei radicali e del lugubre antiberlusconismo veltroniano. Non avrei mai voluto trattare di bipolarismo davanti al morire. È barbarico, è disumano infierire sui morti, i morenti e i viventi fino a questo punto, usare la tragedia di un vecchio perduto nei labirinti della sua solitudine per legittimare una battaglia civile o, peggio, una contesa politica. Riconosco una luttuosa coerenza ai radicali, nelle loro battaglie intorno al morire, dall’eutanasia all’aborto, alla liberalizzazione della droga. Ma usare un suicidio per rilanciare ancora una volta l’eutanasia, mi pare assai brutto, e un po’ sciacallesco. Rivela l’obbiettivo finale dell’eutanasia che non è quello di staccare la spina a vite ridotte alla pura sopravvivenza biologica, come si vuol far credere attraverso due-tre casi estremi. Ma è l’idea che ciascuno possa decidere la propria morte semplicemente quando «non ce la fa più a vivere», come ha detto ieri alla Camera la radicale Rita Bernardini.
Dunque, non è più il caso estremo di una vita solo vegetativa per decretare la dolce morte; basta sentire il bisogno di uccidersi perché non ce la facciamo più. Nessuno ha diritto di giudicare le tempeste e le tragedie della vita altrui, e dunque il rispetto pietoso verso la scelta drastica del suicidio non deve mai venir meno. Chi ha deciso di compiere quel passo finale assume su di sé tutte le sue responsabilità davanti alla vita e alla morte, a chi gli sopravvive e se, crede, davanti a Dio. Quel che è barbarico, anche se si veste con le dolci vesti della civiltà e della libertà, è che la società, la sanità, la famiglia debbano offrirgli la corda per impiccarsi. Corda indolore, beninteso, per non farlo soffrire.
È umano, terribilmente umano che qualcuno decida di mettere fine ai suoi giorni ma è disumano, terribilmente disumano, immaginare una società, una civiltà che non si fondi sulla vita e non si preoccupi di difenderla ma diventi pubblica impresaria del libero morire. Chi si uccide e chi lo aiuta a uccidersi si assumano le loro responsabilità di fronte a Dio, se esiste, e davanti agli uomini. Senza salvacondotto sanitario; non vogliamo che la mutua ci passi la morte; se preferiamo un gesto estremo, che estremo sia. Un gesto da anarco ribelle, fuori dalla società. Se crediamo che quella sia la massima scelta di libertà, lasciamola alla libertà e non all’assistenza sanitaria pubblica. Si discuta sull’accanimento terapeutico su esistenze minime, incoscienti e solo artificiali. Ma una società non può legalizzare e agevolare il suicidio; smette di essere una società, diventa solo un dispositivo tecnico, un account inumano, per sbrigare al meglio le pratiche. A tale proposito devo ricordare le toccanti testimonianze raccolte da Bruno Vespa tra i familiari che hanno deciso di caricarsi la croce di una vita ridotta al lumicino e ora vivono la gioia di uno straordinario risveglio dei loro familiari dati per morti. Ti riconciliano con la vita e con la famiglia.
Meno ferale ma più brutta è stata la lugubre speculazione di Veltroni. Ricordare in Parlamento che al suicida Monicelli «non piaceva l’Italia d’oggi, la mortificazione della vita culturale» significa quasi adombrare, ma in quei modi obliqui, tipicamente veltroniani, riferiti sempre a misteriosi fattori climatici, un nesso tra il suicidio del grande regista e la polemica antiberlusconiana dei cineasti e della sinistra de piazza. Non farla così sporca, Walter, non mescolare la propaganda politica al cordoglio. Te lo dico con le parole di Totò: «’Sti ppagliacciate ’e ffanno sulo ’e vive: nuje simmo serie... appartenimmo a’ morte».
Trovo tremenda l’eco di altri due suicidi in questi giorni, di un prete e di un diacono: il primo perché scoperto dalle Iene nelle sue debolezze omosessuali, il secondo perché ritenuto non idoneo al sacerdozio. È terribile come il parlare di suicidi porti altri suicidi. E mi spaventa dirlo mentre scrivo sul tema, seppure in direzione inversa rispetto al diffuso cupio dissolvi in gloria del suicidio.
Qui torno a Monicelli. Mi ha scosso sapere che anche lui ha avuto, come altri casi, il tragico esempio di un padre suicida. Quante volte i figli rimproverano ai loro genitori il volontario abbandono della vita e dei loro cari quando insorge la disperazione. E quante volte, tragicamente, a distanza di tanti anni, quei figli ripetono gli stessi errori dei padri o delle madri, per ragioni diverse ma in un intreccio doloroso d’amore e di protesta tardiva verso di loro. Si uccidono a volte contro i loro padri e le loro madri che li abbandonarono, ma si uccidono come loro. Questo dimostra che non siamo isole nel deserto del mondo, ma siamo legati pur sempre a qualcuno, veniamo da qualcuno, rispondiamo a qualcuno, echeggiano in noi tracce profonde, e dentro la nostra solitudine abitano impreviste comunanze. Amor fati, senza osare di insegnare nulla a nessuno. Addio maestro, e che almeno in questo non abbia discepoli.
«Il Giornale» del 2 dicembre 2010
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