Protestare non basta. Serve ricominciare
di Marina Corradi
Negli
«Nascondervi dietro a un dito dicendo che è colpa del black bloc non serve a nulla. Siamo noi, ragazzi normali, senza un futuro, pieni di rabbia», scrive un ragazzo a Roberto Saviano. «Mia figlia, trent’anni, precaria e nessun sogno», scrive una 'mamma arrabbiata' a un quotidiano. Rabbia, dopo le piazze del 14 dicembre, è la parola più diffusa per raccontare una generazione. Che ha guardato la guerriglia senza parteciparvi, ma anche, non pochi, senza indignarsene; come fosse il rigurgito di una frustrazione coralmente avvertita.
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un contratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di crisi, mentre la globalizzazione del mercato abbatte come una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, intravedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in inganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fatto credere, nell’educazione spesso troppo conciliante, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assistono a un deterioramento vistoso della politica, dove il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrabbiati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dicano, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’aria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto generazioni ben più povere e materialmente travagliate. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, davanti al ritornare su troppi media della parola 'rabbia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? Anche in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il sentimento che legittima le armi, quando qualcuno si convince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cieca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il desiderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le macerie e ricominciare. Quella generazione, che per i ragazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’idea cristiana di una società equa o il socialismo, erano cose che impostavano la vita. Vivevano, comunque, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emigravano a lavorare in città lontane e straniere; in modi diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del desiderio » in Italia, del desiderio di fare, costruire, iniziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cristiani è la speranza). Non è anche per una crisi di speranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una generazione non ha tramandato questo desiderio, ha mancato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ricominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi dell’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replicato: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».
Non che non ne abbiano ragioni. Questi sono i ragazzi del precariato infinito, lieti, a trent’anni, di un contratto che ne dura tre; e ci si chiede come ci si fa una famiglia, o una casa, con prospettive così brevi. Figli generati dalla generazione del posto fisso e spesso supergarantito, si affacciano al lavoro in tempi di crisi, mentre la globalizzazione del mercato abbatte come una falce i privilegi che credevamo intoccabili. Cresciuti nel benessere, educati al consumismo, intravedono un orizzonte in implosione, dove saranno più poveri dei loro genitori. Si sentono tratti in inganno: la vita è più dura di quanto era loro stato fatto credere, nell’educazione spesso troppo conciliante, eredità del motto sessantottino 'vietato vietare', filtrata in tante famiglie. Sono arrabbiati perché assistono a un deterioramento vistoso della politica, dove il 'bene comune' pare pura retorica. Sono arrabbiati, ancora, in molti, benché difficilmente lo dicano, per i privati travagli di tante loro famiglie, divise, abbandonate, o per le grandi solitudini di figli unici cresciuti davanti alla tv.
Eredi inconsapevoli di un nichilismo respirato nell’aria: non trasmesso dai padri il filo di un senso della vita, di una positiva speranza, che aveva sostenuto generazioni ben più povere e materialmente travagliate. Dunque, le ragioni di rabbia non mancano. Ma, davanti al ritornare su troppi media della parola 'rabbia', non ci si può non chiedere dove porti, la rabbia. Dove si va se, davvero, si ha solo rabbia addosso? Anche in una casa il vivere con la maschera dell’astio, della rivendicazione, della pretesa porta al disastro. L’avere anche oggettive ragioni di rancore, poi, pone in un rischio: sentirsi vittime, 'giusti', anime a posto, e solo l’altro colpevole di tutti i nostri mali. È il sentimento che legittima le armi, quando qualcuno si convince che un mondo giusto lo si debba imporre.
La 'rabbia' coltivata, vezzeggiata, è una strada cieca. Viene da domandarsi però: avevano forse meno ragioni di rabbia i ventenni del dopoguerra, reduci da un massacro, tornati in città distrutte? Quei ragazzi avevano, però, anche qualcosa di molto grande: il desiderio di ricostruire un’altra Italia. Ciò che permise, anche nella fame e nel lutto, di portare via le macerie e ricominciare. Quella generazione, che per i ragazzi di oggi è quella dei nonni, era cresciuta dentro l’humus di grandi speranze: che fossero la fede e l’idea cristiana di una società equa o il socialismo, erano cose che impostavano la vita. Vivevano, comunque, certi che non si vivesse per sé soli; sicuri di un senso del continuare nei figli, anche quando emigravano a lavorare in città lontane e straniere; in modi diversi, erano abitati da un gran desiderio di vita.
L’ultimo rapporto del Censis parla di un «calo del desiderio » in Italia, del desiderio di fare, costruire, iniziare. (Quel desiderio, quella fiducia, che per i cristiani è la speranza). Non è anche per una crisi di speranza che i ragazzi si sentono traditi? Se una generazione non ha tramandato questo desiderio, ha mancato di molto. E però la rabbia non basta. Occorre ricominciare, e occorre che ricomincino i figli.
Come? Sentite questo dialogo fra due ragazzi dell’anno 1942, forse il più oscuro della guerra. Lei è Etty Hillesum, giovane ebrea che morirà a Auschwitz. Lui è un amico comunista. «Vedi, Klaas, non si combina niente con l’odio. (..) Ognuno deve distruggere in sé stesso ciò che vorrebbe distruggere negli altri. Ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende più inospitale». E Klaas, annota la Hillesum nel suo Diario, «Da arrabbiato militante di classe ha replicato: ma questo, sarebbe di nuovo cristianesimo! E io, divertita da tanto smarrimento: certo, cristianesimo. Perché poi no?».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010
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