La violenza non è mai giustificabile
di Piero Ostellino
C'è, da parte di alcuni media - trasmissioni tv e giornali - una certa irresponsabile indulgenza, persino una sorta di giustificazionismo morale e ideologico, nei confronti dei responsabili dei disordini di Roma, che male si conciliano con l'idea di democrazia liberale. La tesi di fondo è che la classe politica, nella circostanza, si sarebbe arroccata dentro al Palazzo, al sicuro di una «zona rossa», e non avrebbe saputo guardare, oltre a ciò che stava accadendo nelle strade, anche alla maggioranza degli italiani che non manifestano, ma che sono ugualmente depressi e sfiduciati. Insomma, una versione aggiornata dei «compagni che sbagliano» (ma hanno ragione).
Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco. Sono pericolose. Di «questa» classe politica si può dire tutto il male possibile - personalmente lo faccio in ogni mio articolo -, ma accusarla di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani è negare la Politica stessa, che rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti. È spalancare le porte al terrorismo. La polizia (lo Stato) aveva creato una «zona rossa» non per difendere la classe politica, ma le Istituzioni, da delinquenti o idioti - convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat - che erano intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento.
Parliamo, allora, a questo punto, anche dei giovani che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza. Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale. Di diversa, e più complessa definizione è la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la «separazione» del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze.
Ma qui, si fuoriesce dalla democrazia liberale e rappresentativa - Rousseau sbagliava sostenendo, contro di essa, che gli inglesi erano liberi solo quando votavano e diventavano schiavi subito dopo - e si precipita in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali. Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta «volontà generale» (che è, poi, sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica. In realtà, quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. È un fatto che il «rivendicazionismo continuo» di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa. Della quale si dovrebbe, però, discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi.
Dire che le parole a giustificazione delle criminali violenze che hanno messo a ferro e fuoco la capitale sono sbagliate è dire poco. Sono pericolose. Di «questa» classe politica si può dire tutto il male possibile - personalmente lo faccio in ogni mio articolo -, ma accusarla di non saper capire che le ragioni della violenza sono anche quelle della maggioranza degli italiani è negare la Politica stessa, che rimane il solo strumento di pacifica composizione delle differenze e dei conflitti. È spalancare le porte al terrorismo. La polizia (lo Stato) aveva creato una «zona rossa» non per difendere la classe politica, ma le Istituzioni, da delinquenti o idioti - convinti di fare la rivoluzione spaccando vetrine e bancomat - che erano intenzionati a estendere al Parlamento lo stesso trattamento.
Parliamo, allora, a questo punto, anche dei giovani che volevano dimostrare pacificamente il loro dissenso e sono stati travolti essi stessi dalla violenza. Manifestare è una libertà liberale inalienabile, un diritto costituzionale. Di diversa, e più complessa definizione è la rivendicazione, da parte di gruppi di ogni categoria sociale, dei propri diritti corporativi, ogni volta che siano toccati dalla politica, con la pretesa che il Parlamento ridiscuta con loro le scelte fatte ad ogni stormire di manifestazione, pena la «separazione» del Paese reale dal Paese legale e il rischio di violenze.
Ma qui, si fuoriesce dalla democrazia liberale e rappresentativa - Rousseau sbagliava sostenendo, contro di essa, che gli inglesi erano liberi solo quando votavano e diventavano schiavi subito dopo - e si precipita in un surreale pluralismo che rifiuta le regole del Costituzionalismo e ignora le libertà individuali. Si finisce, in sostanza, nel permanente assemblearismo di Piazza, nella negazione dell'esito delle libere elezioni, cioè nello svuotamento della sovranità popolare, nel totalitarismo di una supposta «volontà generale» (che è, poi, sempre particolare). Salvo voler rientrare nella democrazia rappresentativa se a vincere le elezioni è la propria parte politica. In realtà, quando si ricorre alla violenza, non si parla più di diritti. Si mette in discussione la Legge. Che va rispettata. È un fatto che il «rivendicazionismo continuo» di diritti (o di privilegi?) collettivi e corporativi sia un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa. Della quale si dovrebbe, però, discutere con proprietà di linguaggio culturale e politico, senza concessioni demagogiche e totalitaristiche, ed evitando di stravolgerne, come invece si fa, i fondamenti stessi.
«Corriere della Sera» del 18 dicembre 2010
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