La follia ideologica che insanguinò la Cambogia rivista in un saggio. E i lettori nordici lo dichiarano «libro dell’anno»
di Lorenzo Fazzini
Il libro dell’anno (2007) in Svezia? Non lo Stieg Larsson della saga Millennium, o qualche suo epigono e imitatore del thriller tra i ghiacci. Bensì un racconto-verità sulla Cambogia dei massacri di Pol Pot, uno dei Paesi del 'comunismo reale' dove la furia ideologica sterminò 1 milione e mezzo di persone su poco più di 4 milioni di abitanti. Un’esperienza politica all’insegna del più triste totalitarismo, che quasi supera il regime nazista per cecità omicida: «I nazisti vedevano i propri nemici a gruppi: ebrei, rom, omosessuali, e così via. Nella Kampuchea Democratica, e in una serie di altre dittature comuniste, chiunque poteva essere un nemico. Il crimine non risiedeva nel sangue o nei geni, ma nel pensiero, e dunque tutti erano potenziali controrivoluzionari. A nessuno era concesso di sentirsi al sicuro». Come altri totalitarismi, ad esempio, anche nella 'democratica' Cambogia «i libri di una delle biblioteche universitarie furono portati fuori, in mezzo al viale, e bruciati'». Come ogni regime totalitario, ben descritto da Hannah Arendt, «tutto, assolutamente tutto, appartiene all’Organizzazione », come veniva chiamato il governo comunista di Phnom Penh. E, come da copione, nemico numero uno era «la religione: l’istituzione forse più importante in Cambogia non esisteva più. I legami millenari con gli antenati e il mondo degli spiriti erano stati recisi di colpo. Continuare a pregare e offrire sacrifici era illegale». E in Occidente? Proprio sulla comprensione dell’assurdità dell’esperienza di Pol Pot e compagni (il genocidio durò 4 anni, dal ’75 al ’79, ma lasciò le sue ferite aperte per anni) si concentra Peter Fröberg Idling nel suo Il sorriso di Pol Pot (Iperborea, pp. 336, euro 17, dal quale abbiamo preso i virgolettati sopracitati), affascinante testo che indaga una vicenda curiosa: una spedizione dell’Associazione di Amicizia Svezia-Kampuchea a Phnom Phen e dintorni, per rinsaldare i legami con i khmer rossi. Idling, giornalista e scrittore a lungo residente in Cambogia, ha compiuto un viaggio, fisico e simbolico, nel Paese orientale ma soprattutto nell’accecamento ideologico di quegli occidentali per i quali il comunismo in salsa cambogiana era sinonimo di libertà e non di oppressione. Solo oggi una delle partecipanti a quel viaggio, annota Idling, «considera la violenza dei khmer rossi come la peggiore che un regime abbia perpetrato nei confronti del proprio popolo dopo la Seconda guerra mondiale ». Ma all’epoca i 'cattivi maestri' erano già all’opera: l’autore ne indica uno su tutti, il linguista americano Noam Chomsky (ancora sulla breccia come guru no global). Il quale si fidò – denuncia Idling – delle «fredde statistiche ufficiali contrapposte alle debole e contraddittorie informazioni fornite dai profughi» che dalla Cambogia fuggivano nella vicina Thailandia per espatriare verso l’Occidente (vedi il recente Il lungo nastro rosso di Loung Ung, sopravvissuta al genocidio di Pol Pot, edito da Piemme). Eppure anche allora una fonte sicura esisteva, per il mondo occidentale: bastava dar fede al missionario francese François Pinchaud il cui Cambodge: L’année zéro «rappresentò una chiave di volta» perché «presenta – scrive Idling – una descrizione sostanzialmente corretta della rivoluzione dei khmer rossi. All’epoca la sua pubblicazione suscitò forti polemiche». Da questo libro la Cambogia risalta come emblema di quell’accecamento ideologico che in Occidente, negli anni Sessanta e Settanta, ha offuscato il dramma di un comunismo imposto con la forza (e sennò, come?). E che ha drammaticamente segnato, con il suo imperialismo 'rosso', il destino di intere popolazioni di Paesi lontani.
«Avvenire» del 4 dicembre 2010
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