14 dicembre 2010

L’anima della neuroscienza

Da una parte le indagini sui meccanismi cerebrali e sul loro rapporto con libertà e volontà; dall’altra la millenaria tradizione del pensiero occidentale che riflette su corpo e spirito.
A che punto è arrivato il confronto? È ancora un limite invalicabile quella corrente «riduzionista» che vorrebbe correlare ogni azione e ogni scelta dell’uomo a un moto meccanico dell’encefalo? Faccia a faccia tra un filosofo e un fisiologo
di Andrea Lavazza
Ghisalberti: «Scienze dello spirito e scienze del cervello dialoghino»
Alessandro Ghisalberti, pro­fessore di Filosofia teoretica presso l’Università Cattolica di Milano, ha dedicato la sua lunga at­tività di studio e ricerca alla filosofia scolastica e ai rapporti tra razionalità filosofica e rivelazione cristiana.

Che cosa resta oggi vitale della vene­randa tradizione filosofica e teologi­ca sul concetto di anima?
«La parola anima, assunta a indicare in senso generale la parte spirituale dell’uomo, appartiene in modo irre­versibile alle tradizioni religiose, teo­logiche, filosofiche, letterarie e scientifi­che della civiltà occi­dentale, così come, nonostante il caratte­re astratto dell’anima, la sua raffigurazione in modalità pittoriche e figurative di ogni ge­nere si riscontra sin dai primordi del­le civiltà mediorientali. Direi che del­l’anima oggi resta tutto in teologia, ma anche in filosofia. Si potrebbe dire che il caso dell’anima è analogo a quello di Dio: chi vuole negarne con prove filosofiche o scientifiche l’esistenza, è costretto a dichiarare di avere una no­zione di anima. Ma sappiamo che 'provare' (e non semplicemente dire a parole) la non esistenza di entità concettuali così forti, come Dio e ani­ma, invisibili perché immateriali, è impresa del tutto impossibile».

La scienza sta erodendo nel senso co­mune l’idea di anima come compo­nente immateriale dell’uomo. Che cosa può replicare la filosofia?
«Non ritengo che la scienza possa se­riamente minare la nozione di anima come componente o facoltà immate­riale dell’uomo, composto di anima e corpo; certamente la divulgazione scientifica meno rigorosa ha portato a un diffuso modo di concepire in ter­mini fisicistici (materiali) i processi che determinano le funzioni psichi­che, emotive e cognitive dell’uomo. Ma è innegabile che il senso comune mantiene un riferimento all’anima, soprattutto nel vissuto del singolo sog­getto».

Mente è un sinonimo moderno di a­nima o si rischia di fare ulteriori e pe­ricolose confusioni?
«Servirebbero molte distinzioni, si può tuttavia osservare, in generale, che se si prende l’uomo nella sua de­finizione più diffusa di organismo do­tato di un corpo animale e della ca­pacità di pensare, allora il significato di anima razionale può avvicinarsi al moderno termine di mente. Con l’av­vertenza, però, che all’anima appar­tiene tutto il vissuto biopsichico del­l’io, con le sue aspirazioni intime».

In che senso si può dire, come nel te­sto introduttivo del convegno, che le neuroscienze sono una dimensione che più adeguatamente delinea e di­fende l’anima?
«Le neuroscienze difendono l’anima perché sanno di trovarsi, nei territori complessi dell’anima, su terreni assai delicati. Quello che esse verificano sperimentalmente nella corteccia ce­rebrale offre dati positivi certi, che però sono circoscritti al campo d’in­dagine attivato; il re­sto, come spiegare la natura del pensiero a­stratto, o la dimensio­ne della coscienza sog­gettiva, non è compito delle neuroscienze, ma costituisce ogget­to dell’interpretazione sulla base di analisi filosofiche o teo­logiche. Non è il neurone che avverte lo stato di depressione o di angoscia, ma spesso accade che si producano reazioni nell’interiorità del soggetto, prima sentite come angoscia, poi co­me ritorno alla normalità: angoscia o serenità sono elaborazioni dell’ani­ma, ossia del vissuto peculiare del sog­getto umano».

Quale dialogo vi può essere attual­mente tra scienze dello spirito e scienze del cervello? Ci sono utili ter­reni di confronto?
«Indubbiamente, vi deve essere dia­logo tra scienze dello spirito e scien­ze del cervello, perché trattano tutte la specificità dell’uomo: affrontare u­na stessa questione da molteplici punti di vista arricchisce la visuale, e consente un discorso complessivo sulla realtà unitaria dell’uomo, del suo essere unità di anima e corpo. Senza dimenticare che la millenaria rifles­sione sull’anima ha costituito proprio il campo base della ricerca da cui si sono poi sviluppate le varie branche della psicologia e delle neuroscienze».

«Entrambe trattano la specificità dell’uomo: molteplici punti di vista arricchiscono»
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Berlucchi: «Ma l’approccio interdisciplinare resta arduo»
Giovanni Berlucchi, professore di Fisiologia al dipartimento di Scienze neurologiche e del­la visione dell’Università di Verona, è uno dei decani delle neuroscienze italiane.

Le neuroscienze hanno qualcosa da dire sul concetto di anima, così co­me è stato delineato da teologi e fi­losofia nei secoli, oppure ne pre­scindono completamente?
«Se per anima si intende un’essenza immateriale che sopravvive alla mor­te (e a me pare che oggi questo do­vrebbe essere il senso del termine) le neuroscienze non hanno niente da dire, se non che non si vede come questa es­senza possa contene­re la mente del defun­to, visto che questa è inscindibilmente legata al cervello. Il problema della resurrezione della carne va lasciato teologi».

Alle scienze del cervello, che usano un indispensabile riduzionismo me­todologico, si imputa spesso anche un riduzionismo ontologico, che o­scurerebbe una parte fondamentale della nostra vita personale. Come risponderebbe a questa critica?
«Dagli anni ’60 le neuroscienze (al­meno quelle illuminate) hanno attri­buito all’esperienza soggettiva una dignità ontologica propria, anche se imprescindibilmente dipendente dall’attività nervosa. Il mio dolore non ci sarebbe senza una specifica attività del mio cervello, ma ho il di­ritto di considerarlo diverso da quel­­l’attività. Il grande enigma rimane quello della possibile efficacia cau­sale dei processi mentali sui proces­si cerebrali. Forse non c’è, ma negar­la equivarrebbe a negare i concetti di libertà e responsabilità, indispensa­bili alla coesistenza umana».

Se al neuroscienziato si chiede di parlare di anima, qual è la sua reazione? La mente è diventato sinonimo moderno di anima? Ma anche la mente sembra perdere rilievo a favore del funzionamento 'materiale' del cervello...
«Il neuroscienziato può parlare di anima come tutti, e ciò che dice può avere senso o no. Certo, non mi pare utile equiparare anima a mente, o ritenere che l’anima come essenza spirituale immortale contenga la mente. Per quanto riguarda la mente conscia o inconscia, crederla totalmente dipendente dall’attività nervosa non significa affatto negarne l’esistenza».

La scienza del cervello che 'cancella' l’anima è necessariamente destinata a entrare in urto con la religione? Oppure i loro ambito possono o devono restare distinti, senza pretesa di trovare un punto di incontro?
«Se si restringe (come mi pare opportuno) il concetto di anima alla sopravvivenza di una entità che non ha bisogno del corpo, le neuroscienze non cancellano affatto l’anima. Anzi, l’esigenza di prolungare oltre alla morte la propria esistenza va riconosciuta come un’aspirazione intrinseca del cervello umano, da cui sono nate tutte le religioni. Se la religione dà conforto di fronte alla previsione certa della fine del proprio mondo, per quale ragione la scienza dovrebbe entrare in conflitto con essa?».

Immagino che tra gli scienziati, al di là del comune linguaggio dei dati, vi sia diversità di opinioni. Uno scienziato può continuare a credere all’anima senza subire ostracismi? Il confronto tra scienziati, filosofi e teologi può dare risultati significativi o è diventato un dialogo tra sordi?
«Penso che credere o non credere (in senso religioso) rifletta in ogni persona l’esistenza di fondamentali differenze psicologiche (cerebrali) fra gli individui, dipendenti dai geni, dall’e­sperienza, dall’educazione e da mol­tissimi altri ingredienti dell’esisten­za umana. Quindi, vi sono scienziati che credono e altri no. Entrambi so­no liberi e degni di rispetto. Conosco personalmente grandi scienziati al­cuni dei quali sono religiosi e altri no. Non mi pare in genere che la loro scienza (né per il vero la loro mora­lità) dipenda dalla loro religiosità. Quanto agli incontri fra filosofi, teo­logi e neuroscienziati, le mie espe­rienze sono state spesso negative. Non si tratta di sordità, ma di hybris professionali».
«Spesso negli incontri ho sperimentato, se non sordità, radicate hybris professionali»
«A» del novembre 2010

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