di Gino Roncaglia
In un celebre passo del Fedro, Platone attribuisce a Socrate una critica del testo scritto che rappresenta un momento cruciale nella storia del rapporto fra oralità e scrittura, ed è stata oggetto nel tempo di innumerevoli interpretazioni e discussioni. Il Socrate platonico, va notato, non condanna di per sé la scrittura («in sé, lo scrivere discorsi non è un male», Fedro 258d) e ne riconosce la capacità di conservare la parola nel tempo. Lamenta però il carattere esteriore della memoria scritta, che rischia di far perdere la capacità di ricordare "dall'interno di sé stessi" (Fedro 275a), producendo solo una sapienza apparente. Gli insegnanti che deplorano la tendenza dei loro studenti a ripetere a pappagallo il libro di testo, senza capirne realmente il contenuto, non avranno difficoltà a comprendere il senso di questo rimprovero platonico.
Ma quel che in primo luogo Platone lamenta è il principale limite del testo scritto rispetto alla conversazione orale: l'assenza di interattività.
Ma quel che in primo luogo Platone lamenta è il principale limite del testo scritto rispetto alla conversazione orale: l'assenza di interattività.
«La scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare, quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono, esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso oltre ragione, esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può né difendersi né aiutarsi» (Fedro 275 d-e).
Il concetto espresso è chiaro: il testo scritto è incapace di interagire col lettore. L'interazione la cui assenza è lamentata da Platone è di tre tipi: il testo scritto non sa rispondere alle domande poste per capirne meglio il contenuto, non è in grado di adattarsi alle diverse tipologie di lettori (parla a tutti allo stesso modo), non è capace di 'reagire' alle interpretazioni sbagliate. A differenza di un testo scritto, una persona in carne e ossa è in grado evidentemente di fare tutte e tre le cose.
L'interattività non va confusa con la multimedialità, di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente. La multimedialità ha a che fare con l'uso contemporaneo di codici comunicativi diversi – testo, immagini, suoni, video – all'interno di uno stesso oggetto informativo (e sarebbe forse più propriamente caratterizzata dal termine 'multicodicalità'); l'interattività ha a che fare con la sua capacità di interagire con l'utente. Possono esserci oggetti informativi che sono multimediali ma non interattivi (ad esempio un libro illustrato), e possono esserci oggetti informativi che sono interattivi ma non multimediali (ad esempio il vecchio televideo RAI). Ma nel mondo digitale, interattività e multimedialità sono spesso compresenti.
L'interattività è dunque spesso considerata una delle caratteristiche principali dei nuovi media digitali. E possibile pensare a libri interattivi in grado di rimediare almeno al alcuni dei limiti segnalati da Platone? E che caratteristiche avrebbero, libri di questo tipo?
Per affrontare questo problema, è innanzitutto opportuno soffermarsi sull'esatto significato termine 'interattività'. In cosa differiscono, i media interattivi da quelli non interattivi?
Come sappiamo, tutta la nostra esperienza nasce dall'interazione con la realtà. Da questo punto di vista, qualunque oggetto e qualunque fenomeno è per noi 'interattivo': nel conoscerlo, interagiamo con esso. A livello di fisica quantistica, il principio di indeterminazione ci dice addirittura che questa interazione non è mai neutrale: l'osservatore e l'oggetto osservato fanno parte di un unico sistema, e alcuni parametri relativi all'oggetto sono influenzati dall'atto di osservazione o di misura.
Qualcosa di simile vale per gli atti di comunicazione, anche quando essi si concretizzano in un ‘oggetto comunicativo' dall'apparenza fissa e immutabile. Da questo punto di vista anche un testo scritto, pur essendo fissato sulla pagina, è in un certo senso interattivo: il libro modifica il lettore, e gli studi nel campo della semiotica e della critica letteraria ci hanno spiegato da tempo che, in un senso tutt'altro che banale, il lettore modifica e addirittura crea il libro che sta leggendo.
Non è questo, però, il significato di interattività che aveva in mente Platone. E anche quando parliamo di interattività a proposito dei nuovi media intendiamo probabilmente riferirci a qualcosa di diverso. Ma a cosa, esattamente? Proviamo a proporre una definizione: un oggetto informativo (ad esempio un programma) si dice interattivo se può partecipare a un processo di comunicazione modificando in maniera esplicita l'informazione emessa, in corrispondenza delle scelte degli altri partecipanti a tale processo.
Da questo punto di vista un libro a stampa non è interattivo: come osserva giustamente Platone, il suo testo resta immutabile, indipendentemente dalle caratteristiche del lettore, dalle sue conoscenze, dai suoi interessi, dalle sue eventuali esigenze di chiarimenti o approfondimenti, dalle sue osservazioni o dalle sue critiche. La sola interazione possibile avviene attraverso il supporto del testo: possiamo sottolineare, aggiungere commenti ai margini, oppure – e per un bibliofilo è quasi una profanazione – piegare l'angolo della pagina per tenere il segno o marcare un passaggio importante. Ma in questi casi siamo noi a modificare l'oggetto informativo, che invece, dal canto suo, resta incapace di 'rispondere' alla nostra lettura modificando in maniera esplicita l'informazione emessa, come richiedeva la nostra definizione.
Il libro condivide questa caratteristica con molti altri media: almeno nel mondo precedente la rivoluzione digitale, un film, una fotografia, un canale televisivo o radiofonico sono altrettanto poco interattivi (a meno che la trasmissione non preveda l'intervento diretto del pubblico, che non a caso avviene attraverso un medium naturalmente interattivo come il telefono). Certo, nel caso della radio o della televisione se un programma non ci piace possiamo cambiare canale: l'apparecchio radiofonico o televisivo – a differenza del singolo canale – ha dunque una sua interattività: è in grado, passando da un canale all'altro, di modificare l'informazione emessa in conseguenza di una nostra scelta.
Nel mondo digitale, l'interattività è molto più diffusa e assai maggiore. Il nostro programma di videoscrittura può modificare in un istante le dimensioni e il tipo di carattere utilizzato in un intero testo, e visualizzarlo in modi diversi (paginato, non paginato...). All'interno di un ambiente di realtà virtuale possiamo muoverci e cambiare punto di vista, e la porzione di ‘mondo' visualizzata cambierà in maniera corrispondente. Un videogioco reagisce immediatamente ai nostri comandi, e ci consente di fare strage dei suoi abitanti virtuali. In tutti questi casi, le nostre scelte modificano in maniera esplicita l'informazione che riceviamo.
A cosa può servire, l'interattività, nel caso di un libro?
Possiamo, credo, distinguere due scenari: il particolare tipo di interattività che è legato a un'organizzazione ipertestuale dei contenuti, in cui è possibile decidere un proprio specifico percorso di lettura all'interno di una pluralità di percorsi possibili, e l'aggiunta di singoli elementi interattivi all'interno di un testo fondamentalmente lineare (ad esempio, un box in cui compiere un 'esperimento virtuale' all'interno di un testo di fisica).
Brano tratto da La quarta rivoluzione, Laterza 2010, pp. 210-213.
Postato il 14 dicembre 2010
Postato il 14 dicembre 2010
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