di Massimo Gaggi
Julian Assange chiede le dimissioni del premio Nobel per la Pace Barack Obama, il presidente che due anni fa aprì i cuori del mondo alla speranza: per lui le carte Wikileaks dimostrano che la dimora del governo americano non è un tempio della democrazia, ma una caverna di abusi e illegalità. Dianne Feinstein, senatrice democratica della California (ed ex sindaco della libertaria San Francisco, capitale del mondo digitale) chiede per Assange una condanna pesantissima negli Usa sulla base di una legge del 1917, l’«Espionage Act».
Nulla è semplice e lineare nella vicenda Wikileaks. Misteri e contraddizioni iniziano dalla oscura storia personale di questo «pasdaran» della trasparenza assoluta e dal suo non riconoscere il diritto dei governi di mantenere riservata un’informazione, qualunque siano le ragioni di questa scelta, proprio mentre lui ricorre a massicce dosi di segretezza come arma per preservare l’operatività della sua organizzazione.
L’arresto di Londra sposta, però, la discussione: più che ragionare sui contributi offerti alla consapevolezza dell’opinione pubblica e sui danni provocati dalla pubblicazione dei cablogrammi diplomatici Usa, oggi bisogna interrogarsi sullo strumento repressivo. Incarcerare Assange è il modo giusto per affrontare la questione ed evitare che il fondamentale principio della libertà di parola possa essere di nuovo stravolto fino al punto di pubblicare la mappa dei siti «sensibili» esposti a un attacco terroristico?
L’America, comprensibilmente, si sente ferita e considera Assange un nemico giurato: sfrutta gli spazi del suo sistema aperto, le garanzie democratiche, per attaccarla e indebolirla nel confronto coi regimi autocratici, in genere impermeabili alle rivelazioni.
Ma combattere l’attivista australiano col carcere suscita dubbi sia di legittimità che di efficacia. Al di là del reato a sfondo sessuale perseguito dalla magistratura svedese, sulla questione dello spionaggio il giudizio prevalente dei giuristi Usa è che il Primo Emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce una libertà di parola pressoché assoluta, renda assai difficile incriminare Assange. Chi ha trafugato i documenti e li ha messi in circolazione, Bradley Manning, è già in carcere. Condannare chi propaga informazioni riservate può produrre un vulnus nelle garanzie americane di free speech che fin qui sono state un faro per tutto il mondo libero. Quanto all’efficacia, chiediamoci quale può essere l’impatto mediatico delle immagini dell’arresto di ieri moltiplicate per l’effetto di pratiche di processi che sicuramente sarebbero lunghi e assai controversi: quanti hacker geniali ed esaltati vorranno vendicare Assange e proporsi come suoi eredi?
Qual è la soluzione, allora? Una risposta nitida oggi non ce l’ha nessuno, anche perché è la stessa civiltà di Internet, affamata di soluzioni semplici, istantanee, che complica tutto con le sue rivoluzioni tecnologiche a raffica. Per non sprofondare nelle sabbie mobili va fatta, però, chiarezza almeno su due punti.
Intanto quella del segreto non può essere una fortezza del potere da scardinare per principio nemmeno per la sinistra progressista: quella che dopo l’11 settembre sostenne, contro le campagne militari di Bush, che la lotta al terrorismo andava fatta non coi carri armati, ma usando di più e meglio Cia e intelligence militare.
È poi probabile che una revisione radicale di un sistema di comunicazione della diplomazia Usa rivelatosi sorprendentemente vulnerabile (in genere in Europa i documenti più delicati non vengono trasmessi online e comunque non possono essere prelevati in blocco) risulti, per il futuro, più efficace dell’uso delle manette.
Detto questo, non c’è dubbio che Wikileaks indebolisca ulteriormente un mondo libero che è già sotto pressione. Le democrazie hanno sempre ritenuto di avere un vantaggio economico e politico sulle dittature talmente ampio da potersi permettere la maggiore vulnerabilità delle «maglie larghe» propria di ogni sistema basato su principi di libertà. Oggi questo vantaggio si sta rapidamente riducendo sia per lo straordinario successo economico di alcuni Paesi a guida autocratica, sia per i processi di disgregazione politica prodotti dalla crisi economica in Occidente.
Qualcosa dovrà cambiare se non vogliamo correre i rischi di un mondo senza leadership, ma a chi a Washington oggi è tentato di reagire stringendo quelle maglie, va ricordato che solo un anno fa il Dipartimento di Stato, davanti alle iniziative europee per la tutela della privacy su Internet, reagì sbrigativamente condannando ogni attomirante a limitare l’assoluta libertà della Rete.
Nulla è semplice e lineare nella vicenda Wikileaks. Misteri e contraddizioni iniziano dalla oscura storia personale di questo «pasdaran» della trasparenza assoluta e dal suo non riconoscere il diritto dei governi di mantenere riservata un’informazione, qualunque siano le ragioni di questa scelta, proprio mentre lui ricorre a massicce dosi di segretezza come arma per preservare l’operatività della sua organizzazione.
L’arresto di Londra sposta, però, la discussione: più che ragionare sui contributi offerti alla consapevolezza dell’opinione pubblica e sui danni provocati dalla pubblicazione dei cablogrammi diplomatici Usa, oggi bisogna interrogarsi sullo strumento repressivo. Incarcerare Assange è il modo giusto per affrontare la questione ed evitare che il fondamentale principio della libertà di parola possa essere di nuovo stravolto fino al punto di pubblicare la mappa dei siti «sensibili» esposti a un attacco terroristico?
L’America, comprensibilmente, si sente ferita e considera Assange un nemico giurato: sfrutta gli spazi del suo sistema aperto, le garanzie democratiche, per attaccarla e indebolirla nel confronto coi regimi autocratici, in genere impermeabili alle rivelazioni.
Ma combattere l’attivista australiano col carcere suscita dubbi sia di legittimità che di efficacia. Al di là del reato a sfondo sessuale perseguito dalla magistratura svedese, sulla questione dello spionaggio il giudizio prevalente dei giuristi Usa è che il Primo Emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce una libertà di parola pressoché assoluta, renda assai difficile incriminare Assange. Chi ha trafugato i documenti e li ha messi in circolazione, Bradley Manning, è già in carcere. Condannare chi propaga informazioni riservate può produrre un vulnus nelle garanzie americane di free speech che fin qui sono state un faro per tutto il mondo libero. Quanto all’efficacia, chiediamoci quale può essere l’impatto mediatico delle immagini dell’arresto di ieri moltiplicate per l’effetto di pratiche di processi che sicuramente sarebbero lunghi e assai controversi: quanti hacker geniali ed esaltati vorranno vendicare Assange e proporsi come suoi eredi?
Qual è la soluzione, allora? Una risposta nitida oggi non ce l’ha nessuno, anche perché è la stessa civiltà di Internet, affamata di soluzioni semplici, istantanee, che complica tutto con le sue rivoluzioni tecnologiche a raffica. Per non sprofondare nelle sabbie mobili va fatta, però, chiarezza almeno su due punti.
Intanto quella del segreto non può essere una fortezza del potere da scardinare per principio nemmeno per la sinistra progressista: quella che dopo l’11 settembre sostenne, contro le campagne militari di Bush, che la lotta al terrorismo andava fatta non coi carri armati, ma usando di più e meglio Cia e intelligence militare.
È poi probabile che una revisione radicale di un sistema di comunicazione della diplomazia Usa rivelatosi sorprendentemente vulnerabile (in genere in Europa i documenti più delicati non vengono trasmessi online e comunque non possono essere prelevati in blocco) risulti, per il futuro, più efficace dell’uso delle manette.
Detto questo, non c’è dubbio che Wikileaks indebolisca ulteriormente un mondo libero che è già sotto pressione. Le democrazie hanno sempre ritenuto di avere un vantaggio economico e politico sulle dittature talmente ampio da potersi permettere la maggiore vulnerabilità delle «maglie larghe» propria di ogni sistema basato su principi di libertà. Oggi questo vantaggio si sta rapidamente riducendo sia per lo straordinario successo economico di alcuni Paesi a guida autocratica, sia per i processi di disgregazione politica prodotti dalla crisi economica in Occidente.
Qualcosa dovrà cambiare se non vogliamo correre i rischi di un mondo senza leadership, ma a chi a Washington oggi è tentato di reagire stringendo quelle maglie, va ricordato che solo un anno fa il Dipartimento di Stato, davanti alle iniziative europee per la tutela della privacy su Internet, reagì sbrigativamente condannando ogni attomirante a limitare l’assoluta libertà della Rete.
«Corriere della Sera» dell'8 dicembre 2010
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