17 dicembre 2010

I rivoluzionari fighetti tutti griffe e molotov

Fanno la lotta al capitalismo ma amano il consumismo: in piazza firmati dalla testa ai piedi
di Francesco Perfetti
Ma guardiamoli in faccia i protagonisti della guerriglia urbana che ha messo a ferro e fuoco le strade più eleganti della capitale (e non solo della capitale). E guardiamo come sono vestiti, qualcuno persino con eleganza, con raffinata eleganza: giubbotto Moncler, casco griffato e bottiglia molotov. Studenti? Può darsi, certo non dei migliori, ma non solo. Anche anarchici, black bloc e via dicendo. E i rivoluzionari da salotto Tutti in preda a una follia collettiva, a una voglia di rivoluzione, ma senza un’idea ragionevole e proponibile. Sono la dimostrazione vivente della giustezza di quanto diceva Leo Longanesi e cioè che «un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione».
I protagonisti degli episodi di ordinaria follia dei giorni scorsi appartengono a una tipologia ben precisa di individui presenti nelle società capitalistiche. All’inizio degli anni settanta un famoso giornalista e scrittore, Tom Wolfe, pubblicò un frizzante e irriverente pamphlet dal titolo Lo chic radicale che metteva a nudo, con una ironia impietosa, il mondo dei rivoluzionari da salotto della società americana del tempo. Il libretto fu tradotto in italiano e anche nel nostro paese ebbe un discreto successo, pur se inferiore a quanto ne avrebbe, forse, meritato. Erano gli anni durante i quali, in Italia, il terrorismo, di destra e di sinistra, faceva centinaia e centinaia di vittime, tra morti e feriti e conquistava, per il Bel Paese, un triste primato fra tutti i paesi dell’Europa Occidentale. Erano gli anni durante i quali alcuni intellettuali prestigiosi strizzavano l’occhio alle violenze sostenendo, ipocritamente, che le azioni terroristiche andavano condannate ma contestualizzate e, magari, comprese.
Il saggio di Tom Wolfe, scritto con il pennino intinto nell’acido prussico dell’ironia più dissacrante, metteva in ridicolo il mondo ciarliero e snob delle ricche ereditiere e degli intellettuali problematici del mondo liberal statunitense che ritenevano gratificante invitare ai ricevimenti esponenti dei movimenti rivoluzionari. Era, però, quello di Wolfe, un saggio di costume. Che poteva, ovviamente, essere traslato anche alla realtà italiana, quella dei salotti letterari e radical chic che facevano a gara per avere, tra i loro frequentatori abituali, i protagonisti della contestazione al sistema.
Lo stesso tema è affrontato, non come argomento di costume ma come soggetto di riflessione sociologica e politica, da un giovane studioso italiano, Alessandro Orsini, in un denso saggio dal titolo Il rivoluzionario benestante. Strategie cognitive per sentirsi migliori degli altri (Rubbettino), che, come quello di Wolfe, ha il taglio e lo stile mordente del pamphlet, ma che in realtà un pamphlet non è. Ed è anzi un serio lavoro capace di illuminare sulla personalità e suoi comportamenti dei rivoluzionari, dei contestatori, dei guerriglieri urbani. Si tratta di una vera e propria analisi, effettuata utilizzando pensatori e categorie dell’individualismo metodologico - il cui fine è quello di decodificare l’universo mentale e le strategie di un tipo antropologico, che periodicamente si materializza attraverso atti di terrorismo, manifestazioni rivoluzionarie o pararivoluzionarie, disordini ed episodi di guerriglia urbana.
I rivoluzionari benestanti, dunque. Sono, a dire di Orsini, tutti quei personaggi che si battono per un ideale rivoluzionario, ma vivono agiatamente all’interno delle società del capitalismo avanzato. Tuttavia, queste società, le contestano e le disprezzano perché ritengono che il mondo capitalista sia il peggiore dei mondi possibili. Sono, insomma, questi rivoluzionari borghesi, i marxisti delle società opulente. Ma - attenzione - non sono affatto i rivoluzionari come Giangiacomo Feltrinelli, che saltò in aria con la sua bomba artigianale. No, i rivoluzionari benestanti sono coloro che dicono: «Armiamoci e partite». Sono coloro che, convinti di essere rivoluzionari a tutto tondo, non intendono affatto rischiare la vita e si limitano a disprezzare. A disprezzare permanentemente. E a incoraggiare la violenza degli altri e sulle cose degli altri. Ad essi si attaglierebbe bene la battuta di Ennio Flaiano: «Siamo un popolo di rivoluzionari. Ma vogliamo fare le barricate con i mobili degli altri».
Quanti ne troviamo, di questi personaggi, fra gli intellettuali, i professori universitari, i giornalisti. Sono quelli che selezionano non in base al merito scientifico ma in base alle idee politiche. Che costruiscono biblioteche «monocromatiche». Che si sentono autorizzati a giudicare e condannare senza contraddittorio perché non avrebbe senso, a loro parere, ascoltare chi ha torto. Che vivono all’insegna di una «doppia morale» in base alla quale possono, come faceva Palmiro Togliatti, distinguere tra la «violenza buona e creatrice dell’ordine» e la «cieca rabbia di impotenti». Sono, insomma, dei cattivi maestri che obbediscono a quella che Orsini chiama la «legge ferrea della disonestà intellettuale» e che pontificano dalle pagine della stampa radical chic per giustificare, «contestualizzandole», le imprese dei loro allievi: i contestatori, i rivoluzionari, i terroristi in abbigliamento all’ultima moda.
«Il Giornale» del 16 dicembre 2010

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