di Roberto Mussapi
La poesia non è morta, è solo addormentata, esordisce mercoledì 15 dicembre su queste pagine Giuliano Ladolfi. A questo incipit felice segue una riflessione molto importante e profonda sulla poesia e il suo senso, qui e ora. La poesia, sottintende Ladolfi, non può morire mai, perché è congenita, aggiungo io, inscritta nel dna umano, scriveva Brodskji. Ma può cadere addormentata in un sonno che è del tutto simile alla morte se non interverrà un bacio. Poche fiabe come «La bella addormentata nel bosco» rivelano magiche parabole della poesia stessa, la forza che traduce la morte in sonno, non perché la possa abolire, ma perché la morte è ridimensionata dalla potenza dell’anima, dalla memoria che lega i vivi ai morti, dall’immaginazione poetica che esalta la vita nel suo mistero e nella sua pienezza: «And death shall have not dominion», recita un magnifico verso finale di Dylan Thomas: «E la morte non avrà dominio». Queste premesse per indicare come la poesia non sia soltanto l’attività praticata dai poeti, un’arte o tecnica. È anche quello ma non solo e non nell’essenza primaria: per Socrate l’essenza della poesia è che un dio che entra nel poeta e lo accende, e la tecnica sarà quindi l’insieme di esercizio e sapienza necessarie a tener testa all’ispirazione, a tradurla in linguaggio umano senza tradirne una virgola. La poesia quindi è antropologicamente al centro dell’essere, come la religione: l’ominide non diventa pienamente uomo quando apprende il controllo del fuoco, ma quando piange i suoi morti, li seppellisce e li celebra, mantenendoli vivi alla memoria con le parole, quando dipinge le pareti delle caverne e prega. Per questo il grande poeta romantico Shelley scriveva che i poeti sono i non riconosciuti legislatori dell’umanità. Parlare della situazione della poesia in Italia, dello spazio che occupa oggi nella società, non è quindi un esercizio su un tema marginale e specialistico, ma un problema di salute pubblica. Una società che emargina o dimentica la poesia è malata e destinata a perire, perché è spiritualmente minata. Sulla poesia si reggevano le mura di Atene: la tragedia era al centro della vita della città, le opere in versi dei poeti (Eschilo, Sofocle, Euripide) che interrogavano il cosmo, i misteri del mondo e della vita e della morte, erano rappresentazioni ufficiali, popolari e pubbliche, con tanto di vincitori e di claques. Bisognerebbe interrogarci sulla situazione della poesia in Occidente, almeno, per capire le ragioni della sua emarginazione sociale. Certo con l’avvento della società industriale la poesia viene progressivamente emarginata, in nome della regola dell’utile. Nessuno si sogna di abolire la società industriale, si tratta invece di salvarla. In Italia, la situazione è comunque grave, ed è indubbio che la situazione della poesia o meglio del suo ruolo (perché i poeti, da noi, certo non dormono) sia frutto di una società ancorata a valori minimi, e televisivi, in ogni campo. La neoavanguardia ha completato il danno: non riguardo alla poesia, che è presto rinata, negli anni Ottanta, guardando ai veri, vecchi maestri, ma riguardo alla società: la poesia era sinonimo di esercizio cerebrale, volutamente incomprensibile, quindi ininteressante. Da qui si apre per reazione la ricerca della poesia come facile consolazione, coincidente con la canzonetta. Il problema è qui: ritrovare la complessità della poesia, che corrisponde alla complessità della vita: la coincidenza tra naturalità e mistero. Solo dando spazio ai poeti si può intraprendere questa strada. Perché, ripeto, i poeti veri non dormono.
«Avvenire» del 17 dicembre 2010
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