di Ferdinando Camon
Mai come in questi giorni è risuonata, in tv e sui giornali, la parola «tradimento». Pare che molti nostri parlamentari siano traditori: traditore chi è passato adesso da sinistra a destra, chi è passato in precedenza da destra a sinistra, o da destra e sinistra al centro. «Tradimento» è un concetto polivalente. Fatalità, sul più diffuso quotidiano nazionale si leggeva proprio ieri la citazione di un generale tedesco, che alla fine della Seconda guerra mondiale ha dichiarato: «Non so chi vincerà la terza guerra mondiale, ma so chi la perderà: colui che si alleerà con l’Italia, perché l’Italia lo tradirà». Ecco, partirei da questo concetto: l’Italia, nella Seconda guerra mondiale, ha tradito la Germania. Contesto in toto questo giudizio. È un giudizio che va capovolto.
L’Italia è entrata in guerra (sbagliando, perché la guerra, quella guerra e tutte le guerre, sono, come qualcuno aveva pur detto, «un’inutile strage») insieme con un alleato, contro un nemico, per un traguardo. Pochi mesi dopo tutto era cambiato: alleato, nemici, traguardo. L’alleato aveva allargato a dismisura il fronte dei nemici, s’era fatto nemico tutto il mondo, anzi adesso aveva scoperto anche dei nemici interni da eliminare, i nemici di razza. La soluzione finale con la tecnica dello sterminio fu attuata nell’agosto del ’40. La guerra era diventata una guerra contro l’umanità. Tra i tedeschi c’erano intellettuali che ragionavano (la Rosa Bianca ne era una piccola espressione) sulla liceità, per un tedesco, di augurarsi la sconfitta della Germania. Pareva loro che questo fosse l’unico modo perché la Germania sopravvivesse. C’era anche Thomas Mann fra questi. Si ponevano il problema di come salvare la Germania, come ridarle il diritto di sedere tra le nazioni civili d’Europa. Traditori o salvatori? In Italia poco dopo si porrà lo stesso problema. La scelta tra Resistenza e Salò era una scelta tra due opposti: chi era fedele all’Italia e chi la tradiva? Benedetto Croce dice che nel corpo della nazione italiana, nato liberale, il fascismo s’era infiltrato come una malattia, e che la fine del fascismo fu la fine di una malattia, diciamo pure una guarigione. Non so se si possa mantenere questa metafora, perché la malattia è sempre non-voluta, arriva come una disgrazia, mentre sul fascismo c’è chi pensa che avesse un vasto consenso popolare. Ma il concetto resta: se il fascismo era una dittatura, continuare a servirlo era una prova di fedeltà? E il distacco dal fascismo era un tradimento? o era un tradimento del male, quindi una fedeltà al bene?
Anche le associazioni criminose chiedono la fedeltà e accusano chi le abbandona di tradimento. Si chiamino mafia, camorra o ’ndrangheta, o siano associazioni terroristiche e si chiamino Brigate Rosse o Prima Linea, si attribuiscono un codice etico per cui chi le abbandona è un traditore, un super-traditore, che merita il titolo di «infame». Ora, uno che entra nella mafia, e fa quel che la mafia gli ordina, sequestra, strangola e seppellisce, comportandosi da uomo d’onore, poi entra in crisi, si pente e collabora con lo Stato, certamente in una fase della vita è un traditore, ma quando? Quando lavora per la mafia o quando lavora per lo Stato? Non c’è dubbio che tradisce quando lavora per la mafia, e quando passa allo Stato smette di tradire. «Infame» è il mafioso, non il collaborante. Non merita fedeltà se non il bene, non c’è fedeltà se non al bene. La fedeltà al male è sempre un tradimento.
L’Italia è entrata in guerra (sbagliando, perché la guerra, quella guerra e tutte le guerre, sono, come qualcuno aveva pur detto, «un’inutile strage») insieme con un alleato, contro un nemico, per un traguardo. Pochi mesi dopo tutto era cambiato: alleato, nemici, traguardo. L’alleato aveva allargato a dismisura il fronte dei nemici, s’era fatto nemico tutto il mondo, anzi adesso aveva scoperto anche dei nemici interni da eliminare, i nemici di razza. La soluzione finale con la tecnica dello sterminio fu attuata nell’agosto del ’40. La guerra era diventata una guerra contro l’umanità. Tra i tedeschi c’erano intellettuali che ragionavano (la Rosa Bianca ne era una piccola espressione) sulla liceità, per un tedesco, di augurarsi la sconfitta della Germania. Pareva loro che questo fosse l’unico modo perché la Germania sopravvivesse. C’era anche Thomas Mann fra questi. Si ponevano il problema di come salvare la Germania, come ridarle il diritto di sedere tra le nazioni civili d’Europa. Traditori o salvatori? In Italia poco dopo si porrà lo stesso problema. La scelta tra Resistenza e Salò era una scelta tra due opposti: chi era fedele all’Italia e chi la tradiva? Benedetto Croce dice che nel corpo della nazione italiana, nato liberale, il fascismo s’era infiltrato come una malattia, e che la fine del fascismo fu la fine di una malattia, diciamo pure una guarigione. Non so se si possa mantenere questa metafora, perché la malattia è sempre non-voluta, arriva come una disgrazia, mentre sul fascismo c’è chi pensa che avesse un vasto consenso popolare. Ma il concetto resta: se il fascismo era una dittatura, continuare a servirlo era una prova di fedeltà? E il distacco dal fascismo era un tradimento? o era un tradimento del male, quindi una fedeltà al bene?
Anche le associazioni criminose chiedono la fedeltà e accusano chi le abbandona di tradimento. Si chiamino mafia, camorra o ’ndrangheta, o siano associazioni terroristiche e si chiamino Brigate Rosse o Prima Linea, si attribuiscono un codice etico per cui chi le abbandona è un traditore, un super-traditore, che merita il titolo di «infame». Ora, uno che entra nella mafia, e fa quel che la mafia gli ordina, sequestra, strangola e seppellisce, comportandosi da uomo d’onore, poi entra in crisi, si pente e collabora con lo Stato, certamente in una fase della vita è un traditore, ma quando? Quando lavora per la mafia o quando lavora per lo Stato? Non c’è dubbio che tradisce quando lavora per la mafia, e quando passa allo Stato smette di tradire. «Infame» è il mafioso, non il collaborante. Non merita fedeltà se non il bene, non c’è fedeltà se non al bene. La fedeltà al male è sempre un tradimento.
«La Stampa» del 16 dicembre 2010
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