Escono i diari dell'allora ambasciatore Usa
di Antonia Arslan
Arriva finalmente in Italia, e sarà in libreria a gennaio, un libro straordinario, una delle prime e più efficaci testimonianze sullo sterminio degli armeni, scritta a caldo da un grande ebreo, uomo intelligente, intuitivo e generoso, la cui azione fu dimenticata per decenni insieme alla tragedia degli armeni. Si tratta del Diario 1913-1916 (Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni), che esce per Guerini & Associati a cura di Francesco Berti e Fulvio Cortese (pagine 356, euro 28; prefazione di Pietro Kuciukian; traduzione di Giovanni Maria Seccosuardo).
Henry Morgenthau fu un personaggio politicamente centrale nella tragedia armena: si trovò al posto giusto nel momento giusto, e si comportò da giusto. Ma fece anche qualcosa di più; rese una testimonianza ineccepibile e particolarmente autorevole, perché in quel periodo cruciale (1913-1916) era a Costantinopoli, vicino al centro del potere dell’Impero Ottomano, e per di più nelle vesti di ambasciatore degli Stati Uniti (all’epoca ancora neutrali). Gli studi sulla tragedia del popolo armeno, dalle stragi del 'Sultano Rosso' Abdul Hamid al genocidio del 1915-16, fino al desolato scenario finale degli anni Venti, con l’abbandono forzato delle terre ancestrali, nelle quali oggi non c’è quasi più traccia di una presenza che fu millenaria, ricevono da questo libro un contributo fondamentale. Si tratta di un tassello essenziale della storia del Novecento, che rende leggibili e comprensibili molti altri avvenimenti di quell’infuocato inizio di secolo. Il Diario 1913-1916 si inserisce infatti in un filone di ricerca che si va accrescendo in modo impressionante. Negli ultimi anni - dopo tanti decenni di 'silenzio assordante' sulla questione armena - si stanno infatti moltiplicando gli studi, le analisi, le pubblicazioni di memorie di testimoni stranieri e di documenti recuperati dagli archivi che integrano, illuminano, chiariscono dati e fatti.
Si sono aperti molti archivi diplomatici, fra cui quelli tedeschi e austriaci, che stanno gettando una luce sinistra sulle complicità dei governi dei due imperi nell’attuazione del piano di sterminio, quelli vaticani, quelli francesi; e nuove pubblicazioni escono a getto continuo. Un paio di esempi. Nella sua monumentale opera, Le Génocide des Arméniens, lo studioso francese Raymond Kévorkian, avvalendosi del ricchissimo archivio della Bibliothèque Nubar di Parigi, filtra e sistematizza tutte le informazioni sin qui conosciute sui fatti del 1915, con una completezza impressionante. In uno stile scorrevole, tipicamente francese, racconta nei più minuti particolari lo svolgersi dei fatti, da est a ovest, villaggio per villaggio, città per città, con le date precise, con elenchi ed elenchi dei nomi delle vittime e del loro destino. Lo scrittore armeno-americano Peter Balakian ha invece scoperto il testo dimenticato di un suo prozio, pubblicato in Russia nel 1922, e lo ha fatto tradurre: in The Armenian Golgotha , Grigoris Balakian, unico sopravvissuto del numeroso gruppo di scrittori, politici e intellettuali che venne deportato da Costantinopoli il 24 aprile 1915, decapitando la nazione armena della sua élite, racconta quell’esilio che fu in realtà una condanna a morte, programmata ed eseguita giorno per giorno con spietata efficienza e brutalità. Balakian, ecclesiastico poliglotta con eccellenti studi a Berlino, fu salvato da un ufficiale tedesco che aveva bisogno di lui come interprete. Prese note accurate di quello che vedeva e subiva, e riuscì a mettere in salvo il suo quaderno.
E tuttavia, il Diario di cui qui parliamo ha un significato particolare. Henry Morgenthau era un ebreo americano. Nato in Germania, ebbe successo negli Stati Uniti e divenne amico del presidente Wilson, che lo mandò come ambasciatore presso l’Impero Ottomano. Il suo diario è il palpitante resoconto, quasi giorno per giorno, del suo ostinato tentativo di opporsi al fiume di sangue che travolse la minoranza armena nel 1915. Egli aveva buoni rapporti personali con gli artefici della strage, Talaat ed Enver, e si spese in frequentissimi colloqui con loro per tentare di farli desistere almeno in parte dall’attuazione dello sterminio. Non ottenne quasi niente, allora, quanto a salvezza di persone, ma appena tornato in patria pubblicò questo libro, per dare testimonianza; e in seguito fondò e sostenne una grandiosa associazione di volontariato, chiamata Near East Relief, che raccolse in poco tempo decine di milioni di dollari per i sopravvissuti armeni che vagavano, affamati e senza speranza, nel deserto siriano.
Alla sua generosa e perspicace capacità organizzativa si deve la salvezza dalla morte di migliaia di donne e bambini armeni.
Il libro sembra scritto ieri: è fresco e nervoso, perfino frenetico a volte nel raccontare il piccolo mondo dei diplomatici, la vita nella grande, cosmopolita capitale, «la Città», Costantinopoli; e poi la guerra che preme al di fuori e i colloqui coi capi del Partito Unione e Progresso, che descrive con brio e vivacità, ma anche con desolato pessimismo. Mentre nel caldo comfort del ministero beve tè con Talaat, o pranza a casa di Enver, il quale siede pomposo fra un ritratto di Napoleone e uno di Federico il Grande, Morgenthau non dimentica mai che là fuori si muore di fame e di violenze, e che la sua immunità diplomatica non lo protegge dall’angoscia che gli provoca l’assistere impotente alla fine di un popolo intero. Dopo aver riferito le gelide, sinistre frasi con cui Enver e Talaat rifiutano la sua offerta di portare cibo agli armeni morenti di fame, scriverà: «Non ero riuscito a fermare il massacro degli armeni, e ai miei occhi la Turchia era diventata un luogo di orrori.
Soprattutto mi era diventata insopportabile la frequentazione quotidiana con uomini che a dispetto della cortesia, disponibilità e amabilità manifestate nei riguardi dell’ambasciatore americano, avevano le mani sporche del sangue di poco meno di un milione di esseri umani».
Disegnando spassionati, vivaci ritratti dei diplomatici, militari e uomini d’affari tedeschi, che guardano con indifferenza ai massacri, attenti solo all’interesse del loro paese, aggiunge profeticamente: «La Germania aveva lucidamente architettato la conquista del mondo».
Henry Morgenthau fu un personaggio politicamente centrale nella tragedia armena: si trovò al posto giusto nel momento giusto, e si comportò da giusto. Ma fece anche qualcosa di più; rese una testimonianza ineccepibile e particolarmente autorevole, perché in quel periodo cruciale (1913-1916) era a Costantinopoli, vicino al centro del potere dell’Impero Ottomano, e per di più nelle vesti di ambasciatore degli Stati Uniti (all’epoca ancora neutrali). Gli studi sulla tragedia del popolo armeno, dalle stragi del 'Sultano Rosso' Abdul Hamid al genocidio del 1915-16, fino al desolato scenario finale degli anni Venti, con l’abbandono forzato delle terre ancestrali, nelle quali oggi non c’è quasi più traccia di una presenza che fu millenaria, ricevono da questo libro un contributo fondamentale. Si tratta di un tassello essenziale della storia del Novecento, che rende leggibili e comprensibili molti altri avvenimenti di quell’infuocato inizio di secolo. Il Diario 1913-1916 si inserisce infatti in un filone di ricerca che si va accrescendo in modo impressionante. Negli ultimi anni - dopo tanti decenni di 'silenzio assordante' sulla questione armena - si stanno infatti moltiplicando gli studi, le analisi, le pubblicazioni di memorie di testimoni stranieri e di documenti recuperati dagli archivi che integrano, illuminano, chiariscono dati e fatti.
Si sono aperti molti archivi diplomatici, fra cui quelli tedeschi e austriaci, che stanno gettando una luce sinistra sulle complicità dei governi dei due imperi nell’attuazione del piano di sterminio, quelli vaticani, quelli francesi; e nuove pubblicazioni escono a getto continuo. Un paio di esempi. Nella sua monumentale opera, Le Génocide des Arméniens, lo studioso francese Raymond Kévorkian, avvalendosi del ricchissimo archivio della Bibliothèque Nubar di Parigi, filtra e sistematizza tutte le informazioni sin qui conosciute sui fatti del 1915, con una completezza impressionante. In uno stile scorrevole, tipicamente francese, racconta nei più minuti particolari lo svolgersi dei fatti, da est a ovest, villaggio per villaggio, città per città, con le date precise, con elenchi ed elenchi dei nomi delle vittime e del loro destino. Lo scrittore armeno-americano Peter Balakian ha invece scoperto il testo dimenticato di un suo prozio, pubblicato in Russia nel 1922, e lo ha fatto tradurre: in The Armenian Golgotha , Grigoris Balakian, unico sopravvissuto del numeroso gruppo di scrittori, politici e intellettuali che venne deportato da Costantinopoli il 24 aprile 1915, decapitando la nazione armena della sua élite, racconta quell’esilio che fu in realtà una condanna a morte, programmata ed eseguita giorno per giorno con spietata efficienza e brutalità. Balakian, ecclesiastico poliglotta con eccellenti studi a Berlino, fu salvato da un ufficiale tedesco che aveva bisogno di lui come interprete. Prese note accurate di quello che vedeva e subiva, e riuscì a mettere in salvo il suo quaderno.
E tuttavia, il Diario di cui qui parliamo ha un significato particolare. Henry Morgenthau era un ebreo americano. Nato in Germania, ebbe successo negli Stati Uniti e divenne amico del presidente Wilson, che lo mandò come ambasciatore presso l’Impero Ottomano. Il suo diario è il palpitante resoconto, quasi giorno per giorno, del suo ostinato tentativo di opporsi al fiume di sangue che travolse la minoranza armena nel 1915. Egli aveva buoni rapporti personali con gli artefici della strage, Talaat ed Enver, e si spese in frequentissimi colloqui con loro per tentare di farli desistere almeno in parte dall’attuazione dello sterminio. Non ottenne quasi niente, allora, quanto a salvezza di persone, ma appena tornato in patria pubblicò questo libro, per dare testimonianza; e in seguito fondò e sostenne una grandiosa associazione di volontariato, chiamata Near East Relief, che raccolse in poco tempo decine di milioni di dollari per i sopravvissuti armeni che vagavano, affamati e senza speranza, nel deserto siriano.
Alla sua generosa e perspicace capacità organizzativa si deve la salvezza dalla morte di migliaia di donne e bambini armeni.
Il libro sembra scritto ieri: è fresco e nervoso, perfino frenetico a volte nel raccontare il piccolo mondo dei diplomatici, la vita nella grande, cosmopolita capitale, «la Città», Costantinopoli; e poi la guerra che preme al di fuori e i colloqui coi capi del Partito Unione e Progresso, che descrive con brio e vivacità, ma anche con desolato pessimismo. Mentre nel caldo comfort del ministero beve tè con Talaat, o pranza a casa di Enver, il quale siede pomposo fra un ritratto di Napoleone e uno di Federico il Grande, Morgenthau non dimentica mai che là fuori si muore di fame e di violenze, e che la sua immunità diplomatica non lo protegge dall’angoscia che gli provoca l’assistere impotente alla fine di un popolo intero. Dopo aver riferito le gelide, sinistre frasi con cui Enver e Talaat rifiutano la sua offerta di portare cibo agli armeni morenti di fame, scriverà: «Non ero riuscito a fermare il massacro degli armeni, e ai miei occhi la Turchia era diventata un luogo di orrori.
Soprattutto mi era diventata insopportabile la frequentazione quotidiana con uomini che a dispetto della cortesia, disponibilità e amabilità manifestate nei riguardi dell’ambasciatore americano, avevano le mani sporche del sangue di poco meno di un milione di esseri umani».
Disegnando spassionati, vivaci ritratti dei diplomatici, militari e uomini d’affari tedeschi, che guardano con indifferenza ai massacri, attenti solo all’interesse del loro paese, aggiunge profeticamente: «La Germania aveva lucidamente architettato la conquista del mondo».
«Avvenire» del 19 dicembre 2010
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