06 dicembre 2010

La neutralità della scienza e la partigianeria della politica

Governare la collettività fornisce un'energia smisurata
di Francesco Alberoni
Nel corso della storia i politici, fossero essi re, imperatori, nobili, generali, presidenti o ministri, sono sempre stati al vertice del potere, della fama e della gloria, ma anche dei complotti, degli intrighi e degli inganni. Nei Paesi democratici devono conquistarsi il favore del pubblico con promesse che spesso non possono mantenere e non passa giorno che non debbano affrontare uragani di critiche e di accuse dai loro avversari. E devono a loro volta accusare e criticare in una continua, incessante battaglia dove il vero si mescola al falso, la buona alla cattiva fede, dove ciascuno, comunque, deve sempre dire di essere dalla parte della verità e della giustizia e mostrare che il nemico invece è sempre dalla parte della menzogna e dell'infamia. Il politico militante, anche il più saggio, il più equilibrato, è sempre partigiano.
All'opposto troviamo lo scienziato, che invece ha una mentalità che lo porta a cercare una verità obbiettiva e perciò è disposto a rinunciare alla sua teoria se un altro scienziato gli dimostra che ha sbagliato. E può anche adottare il punto di vista opposto quando si rende conto che spiega i fenomeni in modo migliore. Non importa se l'altro scienziato appartiene al suo partito o a quello avversario, alla sua nazione o a quella nemica. Nel clima di odio feroce della Prima guerra mondiale Eddington, inglese, ha dimostrato la fondatezza della teoria di Einstein, tedesco.
Spesso la politica e l'ideologia sono riuscite a cancellare la neutralità della scienza. Pensiamo al nazismo che ha condannato quella che chiamava «scienza ebraica» e al comunismo sovietico che ha mandato Vavilov in carcere perché colpevole di seguire la «genetica capitalista». Oggi queste cose le consideriamo delle aberrazioni e lo scienziato può tenersi al di fuori delle dispute politiche. Ma se sfiora il campo delle scienze umane, storiche e sociali, i gruppi politici intervengono con pesanti discriminazioni e ostracismi.
Nel profondo, infatti, la politica è una passione totale come l'amore, come la droga, come il gioco. Il suo oggetto è la collettività stessa di cui il politico si sente a un tempo il padrone, lo strumento e il servitore. E ne ricava una energia smisurata, una sicurezza assoluta che lo porta a dire qualsiasi cosa, a giustificare qualsiasi mezzo, a resistere a ogni affronto. Occorrono uno straordinario equilibrio e autocontrollo per non farsene travolgere. Ammesso che sia possibile.
«Corriere della Sera» del 6 dicembre 2010

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