di Davide Rondoni
In questi mesi, dopo l’uscita del mio libro Contro la letteratura (Il Saggiatore), mi sono trovato in molti contesti – scuole, conferenze, mass media – a presentare e discutere la mia idea: rendere facoltativo l’insegnamento della letteratura intesa come lettura e rapporto coi testi nella scuola superiore. Naturalmente, come spiego nel libro, tale scelta dev’essere successiva a un momento sufficientemente lungo in cui la scuola propone ai ragazzi, attraverso insegnanti ad hoc, il gusto e la fatica di leggere, di interpretare un testo e di ricavarne provocazioni e itinerari. Inoltre la scuola deve comunque garantire un insegnamento di storia della letteratura, magari coordinato o interno a quello di storia, così che i ragazzi dovrebbero uscire dalla scuola sapendo più o meno chi era Tasso e cosa ha scritto. Da dove nasce la mia proposta e da dove muovono le riflessioni del mio libro, che si incrociano con quelle di Todorov, Pennac, Raimondi e di altri studiosi in Europa e non solo? E perché, accanto ad adesioni forti e convinte, la mia proposta ha suscitato in taluni quasi un senso di scandalo o di assoluta riprovazione? C’è una questione che attraversa la cultura italiana intera (non a caso adesione o rifiuto alla proposta sono state entrambi «trasversali» a schieramenti, identità culturali e appartenenze). Ho visto docenti di lungo corso acconsentire alle mie riflessioni in nome di una lunga esperienza, giovani rianimarsi dal grigiore a cui si sentivano destinati, o – d’altra parte – alcuni ergersi a strenui difensori dell’esistente come il minore dei mali possibili. Ma l’esistente, appunto, cosa ci mostra? Una sostanziale inefficacia della scuola a motivare i ragazzi alla lettura. I dati delle statistiche parlano chiaro, e anche i rilievi di prima mano che chiunque può fare sono eloquenti. Nel libro si indaga su ragioni profonde o contingenti di tale inefficacia, e io ho alzato la mano per dire: non ci sto. No, non ci sto a che l’Italia dilapidi senza che nessuno fiati – se non con comode estemporanee proteste che fanno pure chic – il suo patrimonio di bellezza e di gusto, rendendolo inerte di fronte agli occhi dei suoi giovani. Non ci sto a seppellire Leopardi, Dante, Manzoni come reperti muti e stantii. A cercare altrove l’educazione del gusto o a lasciare il campo al gusto medio televisivo. La scuola italiana (e non solo) vive una grande crisi di paradigma e di sistema. Ma si preferisce difendere il sistema cadente: in nome di ideologie, di riduzione di tutto a politica come ha fatto Andrea Cortellessa venerdì su «Repubblica» – sai cosa me ne importa di Brunetta e Tremonti, a me interessano Leopardi e i giovani… – o in nome di interessi, pigrizie, corporativismi. È singolare vedere come molti dei rivoluzionari di ieri si saldino con i conservatori dell’altroieri. In effetti, la crisi di una tradizione, di una scuola, sono sempre crisi di civiltà, come avvertivano alcuni pensatori del ’900, da Gramsci a Péguy. La crisi della civiltà improntata su una astratta fiducia tardoilluministica nei sistemi porta con sé la crisi dell’impianto educativo ad essa ispirata. Chi in questi decenni non ha conosciuto o elaborato una possibilità d’impronta diversa, s’attacca anche senza più crederci alle macerie del sistema vigente, opponendosi a ciò che lo mette in discussione offrendo alternative.
«Avvenire» del 18 dicembre 2010
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