Le
di Dario Di Vico
Negli
La novità degli scontri che hanno devastato martedì pomeriggio il centro di Roma è che dopo tanto tempo si è rivista all'opera una vera «macchina della violenza». Per il livello di organizzazione, per la preparazione allo scontro, per l'assoluta determinazione mostrata dagli attaccanti, abbiamo assistito sgomenti a un salto di qualità.
È vero che in Italia si ripetono ormai con preoccupante frequenza le perfomance dei centri sociali e dell'area antagonista che per lo più hanno preso come bersaglio Raffaele Bonanni, ma martedì nella Capitale è accaduto qualcosa di diverso. Si è visto all'opera in piazza un professionismo della guerriglia che per massa critica e «competenze» non si improvvisa e che si era dato come obiettivo esplicito l'attacco ai luoghi simbolo delle nostre istituzioni repubblicane. Tocca agli inquirenti accertare se e come sia in atto un'ibridazione tra l'area antagonista dei centri sociali e gli addestratissimi ultrà del calcio, ma intanto non dobbiamo farci illusioni. È più che probabile che la macchina della violenza non si fermi al prototipo, che abbia voglia di stare in campo anche nei prossimi difficili mesi. Perché oltre al livello militare dello scontro colpisce come i facinorosi abbiano saputo modulare la loro azione in stretta relazione con ciò che via via avveniva a Montecitorio (la Scilipoti comedy). E mentre i soggetti politici, dopo l'esito del braccio di ferro parlamentare, stavano ricalibrando le rispettive strategie, la macchina della violenza ha rubato la scena a tutti e l'ha occupata per ore. Tanto che sui giornali di ieri le cronache degli scontri competevano in spazi con i resoconti sulla fiducia accordata dalle Camere al premier in carica.
Nel day after la domanda da farsi è che cosa possono fare le forze democratiche perché non si ripeta il drammatico copione degli anni 70 che insanguinò le nostre strade e le nostre vite. La risposta è netta: bisogna evitare che questa macchina si trasformi in un partito, che all'efficienza distruttiva dimostrata sul campo si cumuli una soggettività politica, una capacità di leggere l'evoluzione della crisi italiana e di trovare di volta in volta la chiave per ordire e legittimare nuovi assalti al cuore delle istituzioni. Per dirla chiara e tonda bisogna evitare che il Caimano prenda il posto del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali di 40 anni fa, diventi il teorema, la giustificazione teorico-politica di un nuovo partitino armato. La sinistra che, con più o meno fortuna, si oppone a Silvio Berlusconi è quella che meno ha da guadagnare da un clima impastato di violenza politica e disordini di piazza. La storia recente lo dimostra ampiamente, quando lo scontro politico ha ceduto il passo a quello militare l'aggettivo che ha preso il sopravvento è stato sempre «torbido», un modo per segnalare strane connivenze e alleanze indicibili.
Si offre involontariamente una sponda alla macchina della violenza anche quando si finisce per confondere sociologia e politica. Conoscere la società italiana e le sue mille pieghe è uno sforzo continuo, i cambiamenti sono veloci, le contraddizioni sempre dietro l'angolo e la reductio ad unum in Italia non funziona. Nel dibattito mediatico, invece, spesso si compie il percorso opposto. Si semplifica, si prefigura a tavolino che a un contrasto di tipo sociale equivalga immediatamente un cambio di preferenza/schieramento politico, che un pugno di persone che manifesta esplicitamente il suo orientamento rappresenti automaticamente l'universo.
Basta invece leggere le cronache minute di una qualsiasi giornata italiana per capire come sia difficile anche solo aggiornare la mappa sociale. I cinesi comprano un banco del pesce a Venezia e il governatore Luca Zaia protesta, un artigiano del Varesotto è morto per una disattenzione mentre lavorava al tornio di sabato per una commessa urgente, l'immigrazione straniera che tanto ci preoccupa sta invece rallentando il suo flusso, le coop rosse si fondono con quelle bianche. Come si fa a sintetizzare questa complessità dentro la facile formula «la società è contro il Tiranno»? Come si fa a pensare che i facinorosi di Roma siano la proiezione politica di una generazione anch'essa attraversata da mille contraddizioni e tutt'altro che orientata a sinistra? La verità, scomoda da pronunciare, è che non esiste un Paese reale che abbia già scelto compattamente di andare oltre Berlusconi.
La linea di frattura (che esiste) tra le speranze degli italiani e le risposte che vengono dall'alto riguarda per ora l'intero mondo politico e non solo il Caimano. Quando gli imprenditori del Nord dichiarano che proveranno ad andare in Cina «nonostante l'assenza del governo», non stanno annunciando che non voteranno più per Berlusconi, così come i giovani italiani che appena possono vanno a vivere all'estero (oggi a Berlino più che altrove) se ne andrebbero anche se governasse il terzo polo, Pier Luigi Bersani o Nichi Vendola.
Conosco l'obiezione che a queste riflessioni può venire da chi milita a sinistra: negare le ragioni dell'indignazione contro il tiranno vuol dire depotenziarci, toglierci argomenti e favorire così il perdurare del regime. Ma pur coltivando un sacrosanto rispetto dei valori dell'etica pubblica penso che non possano essere sostitutivi di una buona piattaforma politica orientata ad allargare il consenso. La crisi italiana non si sbloccherà fin quando agli elettori non verrà proposta un'alternativa competitiva. Per costruirla l'opposizione deve, intanto, smetterla di amare solo gli italiani che vanno in piazza.
È vero che in Italia si ripetono ormai con preoccupante frequenza le perfomance dei centri sociali e dell'area antagonista che per lo più hanno preso come bersaglio Raffaele Bonanni, ma martedì nella Capitale è accaduto qualcosa di diverso. Si è visto all'opera in piazza un professionismo della guerriglia che per massa critica e «competenze» non si improvvisa e che si era dato come obiettivo esplicito l'attacco ai luoghi simbolo delle nostre istituzioni repubblicane. Tocca agli inquirenti accertare se e come sia in atto un'ibridazione tra l'area antagonista dei centri sociali e gli addestratissimi ultrà del calcio, ma intanto non dobbiamo farci illusioni. È più che probabile che la macchina della violenza non si fermi al prototipo, che abbia voglia di stare in campo anche nei prossimi difficili mesi. Perché oltre al livello militare dello scontro colpisce come i facinorosi abbiano saputo modulare la loro azione in stretta relazione con ciò che via via avveniva a Montecitorio (la Scilipoti comedy). E mentre i soggetti politici, dopo l'esito del braccio di ferro parlamentare, stavano ricalibrando le rispettive strategie, la macchina della violenza ha rubato la scena a tutti e l'ha occupata per ore. Tanto che sui giornali di ieri le cronache degli scontri competevano in spazi con i resoconti sulla fiducia accordata dalle Camere al premier in carica.
Nel day after la domanda da farsi è che cosa possono fare le forze democratiche perché non si ripeta il drammatico copione degli anni 70 che insanguinò le nostre strade e le nostre vite. La risposta è netta: bisogna evitare che questa macchina si trasformi in un partito, che all'efficienza distruttiva dimostrata sul campo si cumuli una soggettività politica, una capacità di leggere l'evoluzione della crisi italiana e di trovare di volta in volta la chiave per ordire e legittimare nuovi assalti al cuore delle istituzioni. Per dirla chiara e tonda bisogna evitare che il Caimano prenda il posto del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali di 40 anni fa, diventi il teorema, la giustificazione teorico-politica di un nuovo partitino armato. La sinistra che, con più o meno fortuna, si oppone a Silvio Berlusconi è quella che meno ha da guadagnare da un clima impastato di violenza politica e disordini di piazza. La storia recente lo dimostra ampiamente, quando lo scontro politico ha ceduto il passo a quello militare l'aggettivo che ha preso il sopravvento è stato sempre «torbido», un modo per segnalare strane connivenze e alleanze indicibili.
Si offre involontariamente una sponda alla macchina della violenza anche quando si finisce per confondere sociologia e politica. Conoscere la società italiana e le sue mille pieghe è uno sforzo continuo, i cambiamenti sono veloci, le contraddizioni sempre dietro l'angolo e la reductio ad unum in Italia non funziona. Nel dibattito mediatico, invece, spesso si compie il percorso opposto. Si semplifica, si prefigura a tavolino che a un contrasto di tipo sociale equivalga immediatamente un cambio di preferenza/schieramento politico, che un pugno di persone che manifesta esplicitamente il suo orientamento rappresenti automaticamente l'universo.
Basta invece leggere le cronache minute di una qualsiasi giornata italiana per capire come sia difficile anche solo aggiornare la mappa sociale. I cinesi comprano un banco del pesce a Venezia e il governatore Luca Zaia protesta, un artigiano del Varesotto è morto per una disattenzione mentre lavorava al tornio di sabato per una commessa urgente, l'immigrazione straniera che tanto ci preoccupa sta invece rallentando il suo flusso, le coop rosse si fondono con quelle bianche. Come si fa a sintetizzare questa complessità dentro la facile formula «la società è contro il Tiranno»? Come si fa a pensare che i facinorosi di Roma siano la proiezione politica di una generazione anch'essa attraversata da mille contraddizioni e tutt'altro che orientata a sinistra? La verità, scomoda da pronunciare, è che non esiste un Paese reale che abbia già scelto compattamente di andare oltre Berlusconi.
La linea di frattura (che esiste) tra le speranze degli italiani e le risposte che vengono dall'alto riguarda per ora l'intero mondo politico e non solo il Caimano. Quando gli imprenditori del Nord dichiarano che proveranno ad andare in Cina «nonostante l'assenza del governo», non stanno annunciando che non voteranno più per Berlusconi, così come i giovani italiani che appena possono vanno a vivere all'estero (oggi a Berlino più che altrove) se ne andrebbero anche se governasse il terzo polo, Pier Luigi Bersani o Nichi Vendola.
Conosco l'obiezione che a queste riflessioni può venire da chi milita a sinistra: negare le ragioni dell'indignazione contro il tiranno vuol dire depotenziarci, toglierci argomenti e favorire così il perdurare del regime. Ma pur coltivando un sacrosanto rispetto dei valori dell'etica pubblica penso che non possano essere sostitutivi di una buona piattaforma politica orientata ad allargare il consenso. La crisi italiana non si sbloccherà fin quando agli elettori non verrà proposta un'alternativa competitiva. Per costruirla l'opposizione deve, intanto, smetterla di amare solo gli italiani che vanno in piazza.
«Corriere della Sera» del 16 dicembre 2010
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