di Mariarosa Mancuso
Quelli che dicono sempre “dove andremo a finire”, e quelli che dicono sempre “è già tutto successo almeno una volta”. D’accordo, sono entrambi discorsi a rischio di sbadiglio: però uno dei due azzecca il punto, e l’altro no. Da tempo raccogliamo prove a sostegno del secondo. Per intima convinzione, anzitutto: non è infatti verosimile che l’ultima generazione di volta in volta ritenuta degna, seria e intelligente abbia esattamente l’età del lamentante. E perché da quando al liceo abbiamo letto Giovenale che si lamentava del traffico romano (bighe e lettighe), l’innocenza in materia se n’è andata e difficilmente tornerà.
Intanto ritagliamo e collezioniamo pezze d’appoggio (si fa per dire, ora ci sono i bookmark, ma il disordine resta uguale). L’ultima ieri, quando abbiamo letto su Slate un articolo di Paul Collins che cominciava così: “Le lettere di rifiuto editoriali gettano nella disperazione migliaia di inglesi”. E uno pensa: “Vorranno mica tutti diventare ricchi come J. K. Rowling, con i suoi sette libri di Harry Potter?”. Macché, la frase era apparsa sul Glasgow Herald del 1895, allora facevano da modello Rudyard Kipling e Thomas Hardy. Ma già i numeri erano impressionanti: da quindici a ventimila dilettanti, stimava la gazzetta, avevano un romanzo nel cassetto. Piatto ricco mi ci ficco, nello stesso anno usciva il primo manuale di scrittura. Intitolato “How To Write a Fiction”, firmato con lo pseudonimo “An Old Hand”, prometteva utili consigli agli aspiranti scrittori.
Più o meno gli stessi che vengono forniti oggi, messi insieme oltre un secolo fa da un furbo giovanotto di 26 anni che si chiamava Sherwin Cody. Primo: mostrare e non dire, ovvero preferire i dettagli concreti agli aggettivi roboanti (meglio un’eroina che cammina a testa alta e con passo deciso, di una fanciulla “fiera e determinata”). Secondo: far piazza pulita delle frasi di cui lo scrittore va più orgoglioso (la differenza tra i dilettanti e i professionisti sta nel fatto che i primi sono troppo buoni con se stessi). Terzo: non credere nella telepatia, il lettore vede quel che c’è sulla pagina, non ha modo di indovinare le intenzioni di un romanziere pigro o incapace. Regole valide per gli scrittori maschi e per le scrittrici femmine, che nell’Ottocento erano numerose e molto popolari tra i lettori che si servivano delle biblioteche circolanti. Per di più, il mestiere non era considerato contrario alla modestia femminile, come vorrà farci credere Virginia Woolf invocando “la stanza tutta per sé”. Anthony Trollope, in un romanzo del 1875 intitolato “La vita oggi” (da Sellerio) aveva perfettamente fotografato la situazione: “I tentativi dilettanteschi in letteratura, iniziati almeno in parte per il piacere che Lady Cadbury ne ricavava, e in parte per essere ammessa nella buona società, erano diventati un duro lavoro per procacciarsi, se possibile, del denaro”.
Intanto ritagliamo e collezioniamo pezze d’appoggio (si fa per dire, ora ci sono i bookmark, ma il disordine resta uguale). L’ultima ieri, quando abbiamo letto su Slate un articolo di Paul Collins che cominciava così: “Le lettere di rifiuto editoriali gettano nella disperazione migliaia di inglesi”. E uno pensa: “Vorranno mica tutti diventare ricchi come J. K. Rowling, con i suoi sette libri di Harry Potter?”. Macché, la frase era apparsa sul Glasgow Herald del 1895, allora facevano da modello Rudyard Kipling e Thomas Hardy. Ma già i numeri erano impressionanti: da quindici a ventimila dilettanti, stimava la gazzetta, avevano un romanzo nel cassetto. Piatto ricco mi ci ficco, nello stesso anno usciva il primo manuale di scrittura. Intitolato “How To Write a Fiction”, firmato con lo pseudonimo “An Old Hand”, prometteva utili consigli agli aspiranti scrittori.
Più o meno gli stessi che vengono forniti oggi, messi insieme oltre un secolo fa da un furbo giovanotto di 26 anni che si chiamava Sherwin Cody. Primo: mostrare e non dire, ovvero preferire i dettagli concreti agli aggettivi roboanti (meglio un’eroina che cammina a testa alta e con passo deciso, di una fanciulla “fiera e determinata”). Secondo: far piazza pulita delle frasi di cui lo scrittore va più orgoglioso (la differenza tra i dilettanti e i professionisti sta nel fatto che i primi sono troppo buoni con se stessi). Terzo: non credere nella telepatia, il lettore vede quel che c’è sulla pagina, non ha modo di indovinare le intenzioni di un romanziere pigro o incapace. Regole valide per gli scrittori maschi e per le scrittrici femmine, che nell’Ottocento erano numerose e molto popolari tra i lettori che si servivano delle biblioteche circolanti. Per di più, il mestiere non era considerato contrario alla modestia femminile, come vorrà farci credere Virginia Woolf invocando “la stanza tutta per sé”. Anthony Trollope, in un romanzo del 1875 intitolato “La vita oggi” (da Sellerio) aveva perfettamente fotografato la situazione: “I tentativi dilettanteschi in letteratura, iniziati almeno in parte per il piacere che Lady Cadbury ne ricavava, e in parte per essere ammessa nella buona società, erano diventati un duro lavoro per procacciarsi, se possibile, del denaro”.
«Il Foglio» del 10 dicembre 2010
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