di Marco Bardazzi
Julian Assange è vittima di un errore giudiziario. Le accuse di stupro che gli vengono contestate appaiono risibili. Il fondatore di Wikileaks andrebbe invece processato dall’opinione pubblica per altri reati (ma senza manette, che servono solo a creare falsi martiri). Quello che ha fatto in camera da letto con le signorine «Sarah» e «Jessica» sembrano fatti suoi, mentre ad essere stati «violentati» dall’operato di Assange sono i concetti di trasparenza e verità. E questi sono fatti nostri.
Il paladino della lotta ai segreti, che vuole un mondo di case di vetro ma lascia la propria vita avvolta nel mistero, potrebbe rivelarsi più dannoso di Dick Cheney per la causa di chi si batte contro gli abusi dei governi.
Dopo le manie per la segretezza post-11 settembre, Barack Obama era arrivato alla Casa Bianca promettendo «un’apertura senza precedenti», lanciando nel 2009 un programma-trasparenza mirato a ristabilire un corretto sistema di controllo dell’esecutivo. È stato un passo importante nel lungo cammino che una democrazia adulta come gli Stati Uniti ha intrapreso da decenni. Un percorso complesso, fatto di leggi del Congresso e sentenze della Corte Suprema, spesso sulla scia di inchieste dei media.
Tutto subirà ora una battuta d’arresto. Aspettiamoci un giro di vite sull’accesso ai documenti governativi, minore condivisione delle informazioni tra agenzie federali, nuovi paletti per la libertà di stampa. Ci saranno più decisioni prese in stanze chiuse, perché diplomazia e intelligence - che servono anche da deterrenti alla guerra - richiedono legittime aree di riserbo dove esprimersi con franchezza.
Possiamo allora condividere le parole di un noto reporter australiano, John Pilger, secondo il quale «quello di Wikileaks è il giornalismo migliore»? Credo di no. Anzi, è difficile pensare che quello di Assange sia giornalismo, neppure nella nuova ottica introdotta dall’era digitale. Il giornalismo ha per protagonisti «testimoni esperti» capaci di valutare i fatti sulla base di conoscenze acquisite nel tempo. Il suo punto di forza è la credibilità, che passa ogni giorno al vaglio di un giudice imparziale: il lettore. Non si è testimoni esperti e credibili, se ci si trasforma in semplici buche delle lettere.
L’effetto-Wikileaks si comincia a vedere proprio in questo. Se il NYTimes avesse ricevuto da solo i 250.000 cablogrammi del Dipartimento di Stato, ne avrebbe pubblicata una minima parte, dopo una lunga analisi e valutando le motivazioni di chi li forniva. Lo dimostra il caso citato come termine di paragone in questi giorni. Daniel Ellsberg, che fornì al quotidiano di New York i «Pentagon Papers», era mosso da «nobili fini morali», come ha detto ieri al «Corriere della Sera» l’esperto liberal di politica estera Fareed Zakaria: lo scopo «era rivelare come gli Usa perseguissero privatamente una politica estera antitetica rispetto a ciò che affermavano in pubblico». Assange, invece, conduce una personale crociata contro quella che ritiene la «cospirazione autoritaria planetaria» degli Usa. Dietro Wikileaks, per Zakaria, c’è «una totale assenza di idealismo». Le sue rivelazioni creano imbarazzi, ma non svelano niente che non avessero già documentato gli inviati in Iraq o in Afghanistan.
I giornali, quando danno il meglio, sono un’altra cosa. Nel 2005 il «New York Times» scoprì le intercettazioni segrete messe in piedi da Bush e indagò per mesi nel massimo riserbo per valutare cosa e come raccontare, senza mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Direttore ed editore del quotidiano furono persino convocati nello Studio Ovale dal Presidente, che intimò loro di non scrivere niente. Non si piegarono e pubblicarono ciò che ritenevano giusto si sapesse, dopo aver vagliato tutto con il metodo, la professionalità e la responsabilità che si richiedono a chi fa il loro mestiere.
Si tratta di criteri di giudizio che, talvolta, possono anche spingere a rinunciare a uno «scoop». Sempre il NYTimes nell’ottobre 1962 era venuto a sapere dell’esistenza di missili sovietici con testate nucleari a Cuba, in un momento in cui la Casa Bianca era impegnata in una delicatissima (e segreta) trattativa con il Cremlino per evitare un conflitto atomico. Con una drammatica telefonata notturna, il presidente Kennedy riuscì a convincere il giornale a non pubblicare la notizia. Due giorni dopo, Washington e Mosca trovarono l’accordo che salvò il mondo.
Una vicenda che Hollywood ha raccontato con un film straordinario, «Thirteen Days». Accadesse oggi, con Obama alle prese con un Assange, la trama del film rischia di essere quella del mondo post-catastrofe di «La Strada» di Cormac McCarthy.
Il paladino della lotta ai segreti, che vuole un mondo di case di vetro ma lascia la propria vita avvolta nel mistero, potrebbe rivelarsi più dannoso di Dick Cheney per la causa di chi si batte contro gli abusi dei governi.
Dopo le manie per la segretezza post-11 settembre, Barack Obama era arrivato alla Casa Bianca promettendo «un’apertura senza precedenti», lanciando nel 2009 un programma-trasparenza mirato a ristabilire un corretto sistema di controllo dell’esecutivo. È stato un passo importante nel lungo cammino che una democrazia adulta come gli Stati Uniti ha intrapreso da decenni. Un percorso complesso, fatto di leggi del Congresso e sentenze della Corte Suprema, spesso sulla scia di inchieste dei media.
Tutto subirà ora una battuta d’arresto. Aspettiamoci un giro di vite sull’accesso ai documenti governativi, minore condivisione delle informazioni tra agenzie federali, nuovi paletti per la libertà di stampa. Ci saranno più decisioni prese in stanze chiuse, perché diplomazia e intelligence - che servono anche da deterrenti alla guerra - richiedono legittime aree di riserbo dove esprimersi con franchezza.
Possiamo allora condividere le parole di un noto reporter australiano, John Pilger, secondo il quale «quello di Wikileaks è il giornalismo migliore»? Credo di no. Anzi, è difficile pensare che quello di Assange sia giornalismo, neppure nella nuova ottica introdotta dall’era digitale. Il giornalismo ha per protagonisti «testimoni esperti» capaci di valutare i fatti sulla base di conoscenze acquisite nel tempo. Il suo punto di forza è la credibilità, che passa ogni giorno al vaglio di un giudice imparziale: il lettore. Non si è testimoni esperti e credibili, se ci si trasforma in semplici buche delle lettere.
L’effetto-Wikileaks si comincia a vedere proprio in questo. Se il NYTimes avesse ricevuto da solo i 250.000 cablogrammi del Dipartimento di Stato, ne avrebbe pubblicata una minima parte, dopo una lunga analisi e valutando le motivazioni di chi li forniva. Lo dimostra il caso citato come termine di paragone in questi giorni. Daniel Ellsberg, che fornì al quotidiano di New York i «Pentagon Papers», era mosso da «nobili fini morali», come ha detto ieri al «Corriere della Sera» l’esperto liberal di politica estera Fareed Zakaria: lo scopo «era rivelare come gli Usa perseguissero privatamente una politica estera antitetica rispetto a ciò che affermavano in pubblico». Assange, invece, conduce una personale crociata contro quella che ritiene la «cospirazione autoritaria planetaria» degli Usa. Dietro Wikileaks, per Zakaria, c’è «una totale assenza di idealismo». Le sue rivelazioni creano imbarazzi, ma non svelano niente che non avessero già documentato gli inviati in Iraq o in Afghanistan.
I giornali, quando danno il meglio, sono un’altra cosa. Nel 2005 il «New York Times» scoprì le intercettazioni segrete messe in piedi da Bush e indagò per mesi nel massimo riserbo per valutare cosa e come raccontare, senza mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Direttore ed editore del quotidiano furono persino convocati nello Studio Ovale dal Presidente, che intimò loro di non scrivere niente. Non si piegarono e pubblicarono ciò che ritenevano giusto si sapesse, dopo aver vagliato tutto con il metodo, la professionalità e la responsabilità che si richiedono a chi fa il loro mestiere.
Si tratta di criteri di giudizio che, talvolta, possono anche spingere a rinunciare a uno «scoop». Sempre il NYTimes nell’ottobre 1962 era venuto a sapere dell’esistenza di missili sovietici con testate nucleari a Cuba, in un momento in cui la Casa Bianca era impegnata in una delicatissima (e segreta) trattativa con il Cremlino per evitare un conflitto atomico. Con una drammatica telefonata notturna, il presidente Kennedy riuscì a convincere il giornale a non pubblicare la notizia. Due giorni dopo, Washington e Mosca trovarono l’accordo che salvò il mondo.
Una vicenda che Hollywood ha raccontato con un film straordinario, «Thirteen Days». Accadesse oggi, con Obama alle prese con un Assange, la trama del film rischia di essere quella del mondo post-catastrofe di «La Strada» di Cormac McCarthy.
«La Stampa» del 9 dicembre 2010
Nessun commento:
Posta un commento