L'onda lunga del caso Wikileaks
di Giuseppe Dalla Torre
Se qualcuno avesse avuto ancora dubbi sul fenomeno del declino dello Stato moderno, è servito: la vicenda di Wikileaks, che occupa le prime pagine dei quotidiani e preoccupa le cancellerie di molti Paesi, sta lì a dimostrarlo in maniera eclatante.
In effetti i processi di globalizzazione, che non attengono solo all’economia, da tempo ormai stanno riducendo, giorno dopo giorno, la sovranità dello Stato e, con essa, stanno provocando il declino di questa forma di organizzazione della società politica, che proprio sul principio di sovranità si è affermata.
Secondo questo principio, sovrano è il potere che non ha altra autorità ed altra legge sopra di sé, ma che d’altra parte riesce effettivamente a controllare e disciplinare i fenomeni che si pongono sul suo territorio. Con la globalizzazione però i fenomeni divengono sempre più transnazionali, continentali, planetari, con la conseguenza che nessuno Stato, per quanto potente sia, è in grado di dominarli. Ma quanto più la realtà sfugge alla signoria dello Stato, quanto più il potere dominativo di quest’ultimo perde effettività, tanto più la sovranità si riduce.
Wikileaks dunque è la riprova: anche la superpotenza statunitense, contro cui in sostanza si è mossa la pericolosissima iniziativa di Julian Assange, non è riuscita a controllare la fuga di notizie e, da questo punto di vista, è messa in ginocchio.
Al di là del caso, la vicenda contribuisce a mettere in evidenza come la sovranità si stia spostando rispetto ai tradizionali titolari: non più gli Stati, ma soggetti nuovi, come quelli che possono dominare il campo economico o la grande rete. È una forma nuova di sovranità, impalpabile, che non riveste i segni distintivi tradizionali, che non è chiusa in un ambito geopolitico, che non si serve dei consueti strumenti giuridici, che poggia la sua effettività su altri presupposti da quelli del passato. E attorno a questa nuova forma della sovranità il conflitto è aperto: la diffidenza manifestata sin qui dalla Cina nei confronti di realtà come Google disvela, a ben vedere, il volto preoccupato di un grande Paese che percepisce come la rete possa sottrarle sovranità, possa stravolgere le basi della propria configurazione politico-istituzionale.
Il fenomeno che il caso Wikileaks ha fatto emergere con chiarezza appare preoccupante.
Perché se di fronte alle tradizionali espressioni della sovranità ci si è attrezzati per difendere l’uomo – le costituzioni, i diritti inviolabili, gli strumenti della democrazia –, dinnanzi al potere della rete siamo tutti indifesi. La cosa più preoccupante, poi, è che mentre gli Stati autoritari o totalitari si mostrano più reattivi, grazie al culto del segreto su cui basano il proprio dominio, le democrazie appaiono invece assai deboli e strutturalmente cedevoli.
Non a caso negli Stati Uniti si dubita fortemente che si possa, legittimamente, perseguire penalmente Julian Assange, posto che la libertà di informazione assurge ad uno dei principi supremi dell’ordinamento americano.
Prima che qualcuno, nella lotta alla supremazia nelle nuove sovranità, riesca ad acquisire un effettivo potere di controllo sulla grande rete, è necessario che la società internazionale si organizzi e crei istituzioni, norme, controlli e mezzi di coazione, idonei a fugare i pericoli di una tirannide planetaria. Si tratta di un intervento che deve saper coniugare la tutela di beni diversi e tra di loro potenzialmente in conflitto: dalla libertà di informazione alla privacy, dalla trasparenza alla riservatezza, dalla memoria di fatti storicamente avvenuti al diritto all’oblio. Si tratta di un intervento urgente: domani potrebbe essere troppo tardi.
In effetti i processi di globalizzazione, che non attengono solo all’economia, da tempo ormai stanno riducendo, giorno dopo giorno, la sovranità dello Stato e, con essa, stanno provocando il declino di questa forma di organizzazione della società politica, che proprio sul principio di sovranità si è affermata.
Secondo questo principio, sovrano è il potere che non ha altra autorità ed altra legge sopra di sé, ma che d’altra parte riesce effettivamente a controllare e disciplinare i fenomeni che si pongono sul suo territorio. Con la globalizzazione però i fenomeni divengono sempre più transnazionali, continentali, planetari, con la conseguenza che nessuno Stato, per quanto potente sia, è in grado di dominarli. Ma quanto più la realtà sfugge alla signoria dello Stato, quanto più il potere dominativo di quest’ultimo perde effettività, tanto più la sovranità si riduce.
Wikileaks dunque è la riprova: anche la superpotenza statunitense, contro cui in sostanza si è mossa la pericolosissima iniziativa di Julian Assange, non è riuscita a controllare la fuga di notizie e, da questo punto di vista, è messa in ginocchio.
Al di là del caso, la vicenda contribuisce a mettere in evidenza come la sovranità si stia spostando rispetto ai tradizionali titolari: non più gli Stati, ma soggetti nuovi, come quelli che possono dominare il campo economico o la grande rete. È una forma nuova di sovranità, impalpabile, che non riveste i segni distintivi tradizionali, che non è chiusa in un ambito geopolitico, che non si serve dei consueti strumenti giuridici, che poggia la sua effettività su altri presupposti da quelli del passato. E attorno a questa nuova forma della sovranità il conflitto è aperto: la diffidenza manifestata sin qui dalla Cina nei confronti di realtà come Google disvela, a ben vedere, il volto preoccupato di un grande Paese che percepisce come la rete possa sottrarle sovranità, possa stravolgere le basi della propria configurazione politico-istituzionale.
Il fenomeno che il caso Wikileaks ha fatto emergere con chiarezza appare preoccupante.
Perché se di fronte alle tradizionali espressioni della sovranità ci si è attrezzati per difendere l’uomo – le costituzioni, i diritti inviolabili, gli strumenti della democrazia –, dinnanzi al potere della rete siamo tutti indifesi. La cosa più preoccupante, poi, è che mentre gli Stati autoritari o totalitari si mostrano più reattivi, grazie al culto del segreto su cui basano il proprio dominio, le democrazie appaiono invece assai deboli e strutturalmente cedevoli.
Non a caso negli Stati Uniti si dubita fortemente che si possa, legittimamente, perseguire penalmente Julian Assange, posto che la libertà di informazione assurge ad uno dei principi supremi dell’ordinamento americano.
Prima che qualcuno, nella lotta alla supremazia nelle nuove sovranità, riesca ad acquisire un effettivo potere di controllo sulla grande rete, è necessario che la società internazionale si organizzi e crei istituzioni, norme, controlli e mezzi di coazione, idonei a fugare i pericoli di una tirannide planetaria. Si tratta di un intervento che deve saper coniugare la tutela di beni diversi e tra di loro potenzialmente in conflitto: dalla libertà di informazione alla privacy, dalla trasparenza alla riservatezza, dalla memoria di fatti storicamente avvenuti al diritto all’oblio. Si tratta di un intervento urgente: domani potrebbe essere troppo tardi.
«Avvenire» del 12 dicembre 2010
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