Squali, assassini e disperati d'Africa
di Marina Corradi
Uno squalo ha ucciso una bagnante nelle acque di Sharm el-Sheik. Sui giornali un resoconto dettagliato, anche a tutta pagina, completo di immagine dello squalo, e misure, peso, lunghezza dei denti nonché abitudini alimentari. Lo squalo predilige i cefalopodi, il barracuda e il tonno, veniamo edotti – per la completezza della informazione.
Già, l’informazione. A poche centinaia di chilometri da Sharm el-Sheik, nel Sinai 250 profughi africani sono prigionieri da settimane di predoni. Che pretendono dai familiari un riscatto. E intanto, per far capire che non scherzano, ne hanno già uccisi sei. Gli altri aspettano in catene il loro destino. Di quei 250 miserabili ha parlato il Papa, all’Angelus di domenica. Ha pregato per loro. Ma alla sua voce non sembra aggiungersi quella specie di preghiera laica che è la mobilitazione mediatica. Non si vede salire nei titoli una battaglia paragonabile, per esempio, a quella per Sakineh. Eppure quegli uomini sono 250, e in sei sono già morti. Eppure il Sinai non è lontano da quella spiaggia dove uno squalo assassino merita le prime pagine.
Uomini e no, viene da pensare. Al mondo esistono gli uomini: sono quelli che vanno in vacanza a Nama Bay, e che sono comprensibilmente disturbati dalla presenza di uno squalo. Facilmente gli italiani benestanti, di Sharm el-Sheik affezionati frequentatori, si lasceranno coinvolgere dalla tragica fine di una turista straniera che nuotava serena, proprio come facevano loro l’anno scorso. Proprio come vogliono fare a Natale: oddio, c’è uno squalo a Nama bay, ci si telefona fra amici in partenza. E poi al mondo esistono i non uomini, gli Untermenschen che scappano dalle guerre infinite di Etiopia, Eritrea e Somalia in carovane di camion, nella polvere. Finiscono in Libia, li imprigionano, fuggono. Non tentano più di imbarcarsi: il Mediterraneo è sbarrato, e quanti già, come loro, giacciono in fondo al mare, in un cimitero senza croci. Come in un labirinto cieco, di respingimento in respingimento, tornano indietro, vendendo sé stessi per pagare un passaggio, una minima speranza di salvezza. Quei 250 volevano chiedere asilo in Israele. I predoni che ne fanno 'commercio' li tengono nel Sinai senza alcuna fatica: uomini stremati, allo sbando, disarmati. Quanto vale la vita di un morto di fame? Famiglie di immigrati in Svizzera, nel Nord Europa si sono sentite chiedere 8.000 dollari dai fratelli, dai figli prigionieri. In sei già ammazzati, il prossimo quando? A dare voce al dramma un prete e le solite Ong. Ma il dramma non trapassa la cortina di una distratta indifferenza sui giornali. Non fa scendere in piazza, non suscita raccolte di firme di intellettuali.
Come mai, potremmo candidamente chiederci. Ma è semplice: la faccenda dello squalo a Sharm el-Sheik riguarda 'noi'. Quei turisti a Nama Bay potremmo essere noi, nelle vacanze di Natale. Leggiamo dunque con allarmata immedesimazione della tragica fine di una 'come noi'. Le 250 vite e storie di quei profughi braccati invece non ci coinvolge emotivamente: sono neri, senza una casa né un soldo, affamati e sporchi. Incomprensibili per noi le loro odissee. Profughi, da che cosa? Gli echi di guerra e sangue che filtrano talvolta tra la cronaca di una festa ad Arcore e l’ultima lite in Parlamento ci giungono così confusi e lontani. E, magari, al Nord (e non solo) qualcuno sotto sotto pensa che quei 250 prigionieri sono 250 immigrati di meno a casa nostra. Non c’è nemmeno, a coinvolgerci, la tensione di una battaglia contro una sentenza di morte. Quei là nel Sinai sono anche al di sotto dei requisiti minimi per avere dei diritti civili: profughi e dunque come non più cittadini di alcun Paese. Non uomini di una non patria. Figli del niente. A chi interessano? Al Papa e al solito prete che se li è presi a cuore, e si sgola a richiamare l’attenzione. Ma il sasso cade nell’acqua inerte di uno stagno. Stiamo pensando ad altro, alla crisi, alle elezioni forse, ai file di Wikileaks. Alle vacanze, i più fortunati. Di predoni, interessano solo quelli con le pinne, sul mare dove si affacciano i resort dove gli uomini 'come noi' vanno, a Natale.
Già, l’informazione. A poche centinaia di chilometri da Sharm el-Sheik, nel Sinai 250 profughi africani sono prigionieri da settimane di predoni. Che pretendono dai familiari un riscatto. E intanto, per far capire che non scherzano, ne hanno già uccisi sei. Gli altri aspettano in catene il loro destino. Di quei 250 miserabili ha parlato il Papa, all’Angelus di domenica. Ha pregato per loro. Ma alla sua voce non sembra aggiungersi quella specie di preghiera laica che è la mobilitazione mediatica. Non si vede salire nei titoli una battaglia paragonabile, per esempio, a quella per Sakineh. Eppure quegli uomini sono 250, e in sei sono già morti. Eppure il Sinai non è lontano da quella spiaggia dove uno squalo assassino merita le prime pagine.
Uomini e no, viene da pensare. Al mondo esistono gli uomini: sono quelli che vanno in vacanza a Nama Bay, e che sono comprensibilmente disturbati dalla presenza di uno squalo. Facilmente gli italiani benestanti, di Sharm el-Sheik affezionati frequentatori, si lasceranno coinvolgere dalla tragica fine di una turista straniera che nuotava serena, proprio come facevano loro l’anno scorso. Proprio come vogliono fare a Natale: oddio, c’è uno squalo a Nama bay, ci si telefona fra amici in partenza. E poi al mondo esistono i non uomini, gli Untermenschen che scappano dalle guerre infinite di Etiopia, Eritrea e Somalia in carovane di camion, nella polvere. Finiscono in Libia, li imprigionano, fuggono. Non tentano più di imbarcarsi: il Mediterraneo è sbarrato, e quanti già, come loro, giacciono in fondo al mare, in un cimitero senza croci. Come in un labirinto cieco, di respingimento in respingimento, tornano indietro, vendendo sé stessi per pagare un passaggio, una minima speranza di salvezza. Quei 250 volevano chiedere asilo in Israele. I predoni che ne fanno 'commercio' li tengono nel Sinai senza alcuna fatica: uomini stremati, allo sbando, disarmati. Quanto vale la vita di un morto di fame? Famiglie di immigrati in Svizzera, nel Nord Europa si sono sentite chiedere 8.000 dollari dai fratelli, dai figli prigionieri. In sei già ammazzati, il prossimo quando? A dare voce al dramma un prete e le solite Ong. Ma il dramma non trapassa la cortina di una distratta indifferenza sui giornali. Non fa scendere in piazza, non suscita raccolte di firme di intellettuali.
Come mai, potremmo candidamente chiederci. Ma è semplice: la faccenda dello squalo a Sharm el-Sheik riguarda 'noi'. Quei turisti a Nama Bay potremmo essere noi, nelle vacanze di Natale. Leggiamo dunque con allarmata immedesimazione della tragica fine di una 'come noi'. Le 250 vite e storie di quei profughi braccati invece non ci coinvolge emotivamente: sono neri, senza una casa né un soldo, affamati e sporchi. Incomprensibili per noi le loro odissee. Profughi, da che cosa? Gli echi di guerra e sangue che filtrano talvolta tra la cronaca di una festa ad Arcore e l’ultima lite in Parlamento ci giungono così confusi e lontani. E, magari, al Nord (e non solo) qualcuno sotto sotto pensa che quei 250 prigionieri sono 250 immigrati di meno a casa nostra. Non c’è nemmeno, a coinvolgerci, la tensione di una battaglia contro una sentenza di morte. Quei là nel Sinai sono anche al di sotto dei requisiti minimi per avere dei diritti civili: profughi e dunque come non più cittadini di alcun Paese. Non uomini di una non patria. Figli del niente. A chi interessano? Al Papa e al solito prete che se li è presi a cuore, e si sgola a richiamare l’attenzione. Ma il sasso cade nell’acqua inerte di uno stagno. Stiamo pensando ad altro, alla crisi, alle elezioni forse, ai file di Wikileaks. Alle vacanze, i più fortunati. Di predoni, interessano solo quelli con le pinne, sul mare dove si affacciano i resort dove gli uomini 'come noi' vanno, a Natale.
«Avvenire» del 7 dicembre 2010
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