Maternità e aborto
di Emanuela Vinai
La domanda si pone con insistenza: ma lo vogliamo far nascere, questo bambino? Quesito tutt’altro che ozioso. Non solo per l’inevitabile assonanza natalizia, ma perché già nella normalità delle cose il venire al mondo è un percorso a ostacoli, e se poi a questo si aggiunge l’attraversamento della giungla dei test prenatali, per il nascituro la faccenda diventa oltremodo ostica. Secondo i dati disponibili, in Italia una donna in gravidanza su tre si sottopone a test di diagnosi prenatale. Le motivazioni sono diverse e vanno dal raggiungimento di una determinata soglia anagrafica (normalmente i 35 anni), alla presenza di malattie geneticamente trasmissibili, a una più generica e ormai diffusissima 'medicalizzazione della gravidanza'.
Un trend che finisce per stigmatizzare la futura mamma che non si sottoponga a tutti gli esami disponibili per 'la salute del bambino' e che, pur nelle migliori intenzioni, finisce per scivolare in un’inarrestabile 'caccia all’anomalia'. «Il problema dello screening prenatale è la finalità con cui lo si effettua», afferma Licinio Contu, genetista, presidente della Federazione italiana Adoces (Associazione italiana donatori cellule staminali) e dell’Admo (Associazione donatori midollo osseo): «Il test ha senso se si esegue, come si farebbe con un adulto, con la prospettiva di fornire tempestivamente una diagnosi di un’eventuale anomalia così da predisporre una terapia adeguata. Se invece l’unica 'cura' prospettata è l’aborto non possiamo che parlare di eugenetica, perché avviene inevitabilmente una selezione».
Contu è particolarmente duro con la 'celocentesi', l’ultimo ritrovato in fatto di test prenatali, che, senza ricorrere alla villocentesi, consente di diagnosticare la talassemia già al secondo mese di gestazione. Anticipare i risultati consente, come dichiarato nel recente comunicato stampa di presentazione del test, di «ricorrere all’Ivg e non all’aborto terapeutico con un beneficio della donna sia fisico sia emotivo». «Nel caso della talassemia è assurdo – ribatte il genetista – perché se i bambini talassemici sono avviati al trapianto in tempo utile le percentuali di guarigione che abbiamo riscontrato sono del 98%». L’uso indiscriminato dei test prenatali e la responsabilità in capo ai sanitari di interpretare correttamente i risultati porta, più o meno inconsapevolmente, all’introduzione surrettizia di un concetto che va contro ogni logica medica: l’aborto diventa prevenzione di una malattia. «La cura che si propone è l’eliminazione del malato – conclude Contu – ma cosa succederebbe se questa soluzione venisse applicata anche nelle corsie degli ospedali?».
Per ovviare all’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita, il 16 dicembre il Ministero della Salute ha pubblicato le «Linee guida sulla gravidanza fisiologica». Attraverso un sistema Pdi quesiti e raccomandazioni, il documento diviene strumento per «la predisposizione di protocolli operativi dei differenti punti nascita, oltre che strumento di riferimento per la presa in carico e la continuità assistenziale della donna in gravidanza». Il vademecum analizza tutto il pianeta maternità: dagli stili di vita all’informazione, dal timing delle visite indispensabili per un corretto monitoraggio agli esami clinici adeguati per la salute della mamma. Una sezione delle linee guida è espressamente dedicata allo «screening per anomalie strutturali fetali» e la «diagnosi prenatale della Sindrome di Down».
L’intento di ridurre l’estensione acritica degli esami prenatali si traduce però nell’ampliamento della platea dei destinatari, come evidenzia Lucio Romano, ginecologo e presidente dell’Associazione Scienza & Vita: «L’articolazione delle linee guida dà una risposta compiuta e aggiornata sulle varie tematiche inerenti la gravidanza fisiologica. Una particolare attenzione viene rivolta all’informazione della gestante, alle indagini di laboratorio e strumentali cui poter accedere e si evidenzia uno speciale impegno nella individuazione tempestiva di feti affetti dalla Sindrome di Down attraverso un capillare percorso finalizzato alla diagnosi prenatale della sindrome, da offrire a tutte le donne entro la 13ma settimana più 6 giorni di gravidanza». Ciò significa «un’estensione massiva dell’esame a tutte le gestanti e non più solo per i soggetti a rischio, come le donne in età fertile avanzata».
I rischi? «Il dato che preoccupa – continua Romano – è il sottile propagarsi di una cultura eugenetica selettiva derivante dalla sovradiffusione di screening prenatali. Infatti, come riportato nelle Linee guida, in Danimarca attraverso l’introduzione della valutazione del rischio utilizzando il 'test combinato', si è dimezzato il numero di nati con sindrome di Down. In altri termini, si è raddoppiato il ricorso all’aborto».
La possibile soluzione è già delineata nel vademecum ministeriale, ma va correttamente applicata: «Laddove viene garantita la possibilità di accedere rapidamente a una consulenza con professionisti esperti e con capacità comunicative – conclude Romano – l’auspicio è che non ci si limiti a una mera informazione sulle procedure ma si valuti con la gestante il rilievo di una vita umana».
Un trend che finisce per stigmatizzare la futura mamma che non si sottoponga a tutti gli esami disponibili per 'la salute del bambino' e che, pur nelle migliori intenzioni, finisce per scivolare in un’inarrestabile 'caccia all’anomalia'. «Il problema dello screening prenatale è la finalità con cui lo si effettua», afferma Licinio Contu, genetista, presidente della Federazione italiana Adoces (Associazione italiana donatori cellule staminali) e dell’Admo (Associazione donatori midollo osseo): «Il test ha senso se si esegue, come si farebbe con un adulto, con la prospettiva di fornire tempestivamente una diagnosi di un’eventuale anomalia così da predisporre una terapia adeguata. Se invece l’unica 'cura' prospettata è l’aborto non possiamo che parlare di eugenetica, perché avviene inevitabilmente una selezione».
Contu è particolarmente duro con la 'celocentesi', l’ultimo ritrovato in fatto di test prenatali, che, senza ricorrere alla villocentesi, consente di diagnosticare la talassemia già al secondo mese di gestazione. Anticipare i risultati consente, come dichiarato nel recente comunicato stampa di presentazione del test, di «ricorrere all’Ivg e non all’aborto terapeutico con un beneficio della donna sia fisico sia emotivo». «Nel caso della talassemia è assurdo – ribatte il genetista – perché se i bambini talassemici sono avviati al trapianto in tempo utile le percentuali di guarigione che abbiamo riscontrato sono del 98%». L’uso indiscriminato dei test prenatali e la responsabilità in capo ai sanitari di interpretare correttamente i risultati porta, più o meno inconsapevolmente, all’introduzione surrettizia di un concetto che va contro ogni logica medica: l’aborto diventa prevenzione di una malattia. «La cura che si propone è l’eliminazione del malato – conclude Contu – ma cosa succederebbe se questa soluzione venisse applicata anche nelle corsie degli ospedali?».
Per ovviare all’eccessiva medicalizzazione del percorso nascita, il 16 dicembre il Ministero della Salute ha pubblicato le «Linee guida sulla gravidanza fisiologica». Attraverso un sistema Pdi quesiti e raccomandazioni, il documento diviene strumento per «la predisposizione di protocolli operativi dei differenti punti nascita, oltre che strumento di riferimento per la presa in carico e la continuità assistenziale della donna in gravidanza». Il vademecum analizza tutto il pianeta maternità: dagli stili di vita all’informazione, dal timing delle visite indispensabili per un corretto monitoraggio agli esami clinici adeguati per la salute della mamma. Una sezione delle linee guida è espressamente dedicata allo «screening per anomalie strutturali fetali» e la «diagnosi prenatale della Sindrome di Down».
L’intento di ridurre l’estensione acritica degli esami prenatali si traduce però nell’ampliamento della platea dei destinatari, come evidenzia Lucio Romano, ginecologo e presidente dell’Associazione Scienza & Vita: «L’articolazione delle linee guida dà una risposta compiuta e aggiornata sulle varie tematiche inerenti la gravidanza fisiologica. Una particolare attenzione viene rivolta all’informazione della gestante, alle indagini di laboratorio e strumentali cui poter accedere e si evidenzia uno speciale impegno nella individuazione tempestiva di feti affetti dalla Sindrome di Down attraverso un capillare percorso finalizzato alla diagnosi prenatale della sindrome, da offrire a tutte le donne entro la 13ma settimana più 6 giorni di gravidanza». Ciò significa «un’estensione massiva dell’esame a tutte le gestanti e non più solo per i soggetti a rischio, come le donne in età fertile avanzata».
I rischi? «Il dato che preoccupa – continua Romano – è il sottile propagarsi di una cultura eugenetica selettiva derivante dalla sovradiffusione di screening prenatali. Infatti, come riportato nelle Linee guida, in Danimarca attraverso l’introduzione della valutazione del rischio utilizzando il 'test combinato', si è dimezzato il numero di nati con sindrome di Down. In altri termini, si è raddoppiato il ricorso all’aborto».
La possibile soluzione è già delineata nel vademecum ministeriale, ma va correttamente applicata: «Laddove viene garantita la possibilità di accedere rapidamente a una consulenza con professionisti esperti e con capacità comunicative – conclude Romano – l’auspicio è che non ci si limiti a una mera informazione sulle procedure ma si valuti con la gestante il rilievo di una vita umana».
«Avvenire» del 22 dicembre 2010
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