Il suicidio come scelta da consigliare vivamente. Chi non ci sta
di di Nicoletta Tiliacos
“Non fate pettegolezzi”, aveva lasciato scritto Cesare Pavese (e prima di lui Majakovskij) prima di suicidarsi. Mario Monicelli, che di scritto non ha lasciato nulla e si è buttato dal balcone di un ospedale romano lunedì sera, era uno che non temeva certo i pettegolezzi. Temeva semmai la trombonaggine e il sussiego, eppure si ritrova monumentalizzato in morte proprio per via di quel suo congedo violento dalla vita. “Un’ultima manifestazione forte della sua personalità”, ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una manifestazione di libertà, secondo l’attrice Stefania Sandrelli (“Questo per lui è stato un estremo gesto di libertà, di anticonformismo, di curiosità”) e secondo il critico Mariano Sabatini (“Togliendosi la vita, perché malato e anziano, ci ha dato l’ennesima lezione di libertà”); prova di “forza del carattere che gli ha permesso di farla finita come voleva, quando voleva” (Lietta Tornabuoni); dimostrazione che la vocazione del mestiere è stata più forte di tutto, perché Monicelli “ha voluto inventarsi un finale” anche per la propria esistenza, uscendo di scena “in modo cinematografico” (Carlo Vanzina).
Meglio di tutti, il regista Giovanni Veronesi: “Ha deciso lui come e quando andarsene. E così facendo, si è ringiovanito di cinquant’anni. Perché il suicidio non è un gesto da vecchi… quest’ultima traccia d’inchiostro è proprio la sua firma, contiene tutta la sua ironia, la sua amarezza… credo che anche la sua uscita finale sia un gesto di libertà, un rifiuto di abbandonarsi alla disperazione. L’ultimo affronto a una vita presa di petto”. (segue dalla prima pagina)
Dagli ottanta in su siamo tutti avvertiti: il suicidio è garanzia di seconda giovinezza.
La radicale Rita Bernardini ha chiesto “almeno una riflessione, della Camera sul modo in cui Monicelli ha scelto di lasciare la vita”, per concludere che va garantita la “dolce morte” a chi non ce la fa più. E se non si riesce proprio a immaginare Monicelli che firma moduli per garantirsi l’iniezione letale di stato, si capisce che, da parte di chi gli ha voluto bene, si voglia negare la tragedia di quel volo disperato o rassegnato, premeditato o impulsivo (non lo sapremo mai) per dargli la solennità, se non la serenità, di un testamento stoico. Per vederci addirittura una ridente capacità di prendersi gioco della morte, cercandola. Ma ha senso raccontare il suicidio di Monicelli come modello, esempio, “sberleffo laico” e “vita presa di petto”? Deve vergognarsi il vecchio che accetta la propria vita fino all’ultimo giorno, dura, malata o solitaria che sia? Saranno pavidi, non liberi, servi e vigliacchi, i novantenni che non approfittano della prima occasione per buttarsi da un balcone?
Lo scrittore Manlio Cancogni, novantaquattro anni, amico di Monicelli da quando ne avevano rispettivamente ventuno e ventidue, dice al Foglio che il regista “era un uomo riservato, modesto, alieno da ogni forma di teatralità. Buttarsi da un balcone al quinto piano in una sera di pioggia è un gesto teatrale, e per questo penso che la sua sia stata l’ispirazione di un momento, non premeditata. Non mi piacciono certi commenti sulla sua morte, che vorrebbero riempirla di un significato di ‘sigla’ necessaria alla vita che Monicelli ha vissuto. Non riesco a spiegare certe apologie se non legandole alla morale dominante del nostro tempo, alla sua irreligiosità, a una delle tante bandiere del laicismo. Ma sono solo favole retoriche applicate a Monicelli, antiretorico per eccellenza”.
Il filosofo Massimo Cacciari trova “sovradimensionati certi commenti. Monicelli era un novantacinquenne, malato e stanco, che ha trovato il coraggio di buttarsi dal quinto piano e ha fatto benissimo. Punto. Non c’è nessun valore di esempio nel suicidarsi così come non c’è nessun valore di esempio nel vivere semplicemente”. Eva Cantarella, studiosa del mondo antico, nel suicidio di Monicelli vede “la fine di un uomo libero che ha deciso di concludere una vita che non sentiva più come degna. Il suo mi appare come un atto coerente con la vita di un uomo come lui. Nessuno può sapere se Monicelli avrebbe voluto dare un significato esemplare al proprio suicidio. Io, pur senza averlo conosciuto, quel significato lo vedo. Ritengo il suicidio di Monicelli un gesto di grande coraggio”. Lo scrittore Ruggero Guarini pensa che “la libertà di suicidarsi uno se la prende, non c’è bisogno che qualcuno te la riconosca. Ma in certi commenti alla morte di Monicelli vedo la vanagloria di chi vuol farsi bello con il vero o supposto coraggio altrui. Vedo un modo di tradire il rispetto per chi ha fatto quella scelta. E vedo la totale mancanza di pietas, dell’elemento religioso della vita che ti impone di rispettare sia l’inesplicabile gesto di Monicelli sia le scelte di chi resta attaccato all’esistenza fino all’ultimo. Sono due momenti dell’‘esserci’ umano che vanno ugualmente rispettati, che esigono silenzio e misericordia”.
Il critico letterario Alfonso Berardinelli riflette sull’inevitabile tentazione di cercare lasciti e messaggi, nella scelta di un personaggio popolare come Monicelli, “ma a quella tentazione bisognerebbe resistere. A volte i suicidi sono disperati atti di vitalità, e magari la vita che era in lui, la sua impazienza, lo hanno portato imprevedibilmente a quel gesto. Mi sembra un po’ osceno mettersi a fare filosofia sul suicidio di uno che sul suo suicidio non ha lasciato detto o scritto nulla. Mettersi nella testa di una persona morta suicida per ricavarne teorie, e magari spenderle su un piano etico-politico, mi sembra indecente”. Berardinelli evoca la morte di Primo Levi, con le congetture sul raptus che salvavano “l’immagine moralmente corretta dell’eroe sopravvissuto al lager. Un’immagine che poteva risultare macchiata da un suicidio interpretato come debolezza, come sconfitta”. Nel caso di Monicelli, le congetture vanno nel senso opposto, del coraggio e dell’affermazione di libertà, “ ma prima di teorizzare bisognerebbe visualizzare mentalmente i suoi film, per capire quanto poco congrui certi sproloqui morali siano all’incredibile varietà comica, drammatica, grottesca, a quel senso dell’imprevedibilità, dell’imponderabilità delle azioni, della varietà dei tipi umani. Se si considerasse tutto questo, ci si fermerebbe, prima di ricavare un enunciato secco dal gesto di un uomo simile. Tutta la vita Monicelli ha insegnato che non ci sono lezioni da dare”.
Meglio di tutti, il regista Giovanni Veronesi: “Ha deciso lui come e quando andarsene. E così facendo, si è ringiovanito di cinquant’anni. Perché il suicidio non è un gesto da vecchi… quest’ultima traccia d’inchiostro è proprio la sua firma, contiene tutta la sua ironia, la sua amarezza… credo che anche la sua uscita finale sia un gesto di libertà, un rifiuto di abbandonarsi alla disperazione. L’ultimo affronto a una vita presa di petto”. (segue dalla prima pagina)
Dagli ottanta in su siamo tutti avvertiti: il suicidio è garanzia di seconda giovinezza.
La radicale Rita Bernardini ha chiesto “almeno una riflessione, della Camera sul modo in cui Monicelli ha scelto di lasciare la vita”, per concludere che va garantita la “dolce morte” a chi non ce la fa più. E se non si riesce proprio a immaginare Monicelli che firma moduli per garantirsi l’iniezione letale di stato, si capisce che, da parte di chi gli ha voluto bene, si voglia negare la tragedia di quel volo disperato o rassegnato, premeditato o impulsivo (non lo sapremo mai) per dargli la solennità, se non la serenità, di un testamento stoico. Per vederci addirittura una ridente capacità di prendersi gioco della morte, cercandola. Ma ha senso raccontare il suicidio di Monicelli come modello, esempio, “sberleffo laico” e “vita presa di petto”? Deve vergognarsi il vecchio che accetta la propria vita fino all’ultimo giorno, dura, malata o solitaria che sia? Saranno pavidi, non liberi, servi e vigliacchi, i novantenni che non approfittano della prima occasione per buttarsi da un balcone?
Lo scrittore Manlio Cancogni, novantaquattro anni, amico di Monicelli da quando ne avevano rispettivamente ventuno e ventidue, dice al Foglio che il regista “era un uomo riservato, modesto, alieno da ogni forma di teatralità. Buttarsi da un balcone al quinto piano in una sera di pioggia è un gesto teatrale, e per questo penso che la sua sia stata l’ispirazione di un momento, non premeditata. Non mi piacciono certi commenti sulla sua morte, che vorrebbero riempirla di un significato di ‘sigla’ necessaria alla vita che Monicelli ha vissuto. Non riesco a spiegare certe apologie se non legandole alla morale dominante del nostro tempo, alla sua irreligiosità, a una delle tante bandiere del laicismo. Ma sono solo favole retoriche applicate a Monicelli, antiretorico per eccellenza”.
Il filosofo Massimo Cacciari trova “sovradimensionati certi commenti. Monicelli era un novantacinquenne, malato e stanco, che ha trovato il coraggio di buttarsi dal quinto piano e ha fatto benissimo. Punto. Non c’è nessun valore di esempio nel suicidarsi così come non c’è nessun valore di esempio nel vivere semplicemente”. Eva Cantarella, studiosa del mondo antico, nel suicidio di Monicelli vede “la fine di un uomo libero che ha deciso di concludere una vita che non sentiva più come degna. Il suo mi appare come un atto coerente con la vita di un uomo come lui. Nessuno può sapere se Monicelli avrebbe voluto dare un significato esemplare al proprio suicidio. Io, pur senza averlo conosciuto, quel significato lo vedo. Ritengo il suicidio di Monicelli un gesto di grande coraggio”. Lo scrittore Ruggero Guarini pensa che “la libertà di suicidarsi uno se la prende, non c’è bisogno che qualcuno te la riconosca. Ma in certi commenti alla morte di Monicelli vedo la vanagloria di chi vuol farsi bello con il vero o supposto coraggio altrui. Vedo un modo di tradire il rispetto per chi ha fatto quella scelta. E vedo la totale mancanza di pietas, dell’elemento religioso della vita che ti impone di rispettare sia l’inesplicabile gesto di Monicelli sia le scelte di chi resta attaccato all’esistenza fino all’ultimo. Sono due momenti dell’‘esserci’ umano che vanno ugualmente rispettati, che esigono silenzio e misericordia”.
Il critico letterario Alfonso Berardinelli riflette sull’inevitabile tentazione di cercare lasciti e messaggi, nella scelta di un personaggio popolare come Monicelli, “ma a quella tentazione bisognerebbe resistere. A volte i suicidi sono disperati atti di vitalità, e magari la vita che era in lui, la sua impazienza, lo hanno portato imprevedibilmente a quel gesto. Mi sembra un po’ osceno mettersi a fare filosofia sul suicidio di uno che sul suo suicidio non ha lasciato detto o scritto nulla. Mettersi nella testa di una persona morta suicida per ricavarne teorie, e magari spenderle su un piano etico-politico, mi sembra indecente”. Berardinelli evoca la morte di Primo Levi, con le congetture sul raptus che salvavano “l’immagine moralmente corretta dell’eroe sopravvissuto al lager. Un’immagine che poteva risultare macchiata da un suicidio interpretato come debolezza, come sconfitta”. Nel caso di Monicelli, le congetture vanno nel senso opposto, del coraggio e dell’affermazione di libertà, “ ma prima di teorizzare bisognerebbe visualizzare mentalmente i suoi film, per capire quanto poco congrui certi sproloqui morali siano all’incredibile varietà comica, drammatica, grottesca, a quel senso dell’imprevedibilità, dell’imponderabilità delle azioni, della varietà dei tipi umani. Se si considerasse tutto questo, ci si fermerebbe, prima di ricavare un enunciato secco dal gesto di un uomo simile. Tutta la vita Monicelli ha insegnato che non ci sono lezioni da dare”.
«Il Foglio» del 2 dicembre 2010
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