Yunus, il banchiere buono cui fu comminato un Nobel, e che ora si rivelerebbe un poco di buono
di Nicoletta Tiliacos
Ironia della sorte vuole che dalla Norvegia, in cui fu gratificato nel 2006 del Nobel per la Pace, arrivino ora seri guai per il settantenne bengalese Muhammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, l’inventore del microcredito santificato dall’occidente in perenne senso di colpa, l’uomo che più di trent’anni fa promise: “Un giorno i nostri nipoti andranno nei musei per vedere cosa fosse la povertà”.
In attesa di visitare quei musei, i nostri nipoti hanno potuto nel frattempo vedere un’inchiesta televisiva del giornalista danese Tom Heinemann, trasmessa martedì in Norvegia e intitolata “Intrappolato nel microdebito”. Nel documentario, Yunus è accusato di aver usato per scopi diversi da quelli inizialmente stabiliti buona parte di una donazione alla sua Banca dei poveri, equivalente a 74,5 milioni di euro ed elargita tra il 1996 e il 1998 da paesi come la stessa Norvegia, la Svezia, l’Olanda e la Germania. Invece di rimanere alla Grameen bank per finanziare le azioni di microcredito, una cifra pari a 47 milioni di euro vi transitò brevemente, prima di finire nelle casse di Grameen Kalyan, un’altra società che fa capo a Yunus e che si occupa di “microassicurazioni” sanitarie.
Di fronte alle rimostranze ufficiali dell’ambasciatore norvegese a Dacca, oltre che della Norwegian agency for development cooperation e del ministro delle Finanze del Bangladesh, Yunus aveva spiegato l’operazione piuttosto disinvolta con motivi fiscali e restituì comunque 17,6 milioni di sterline (una ventina di milioni di euro) a Grameen bank. La vicenda conserva però aspetti oscuri, e la stessa banca, dopo la messa in onda del documentario norvegese, ha annunciato più esaurienti spiegazioni “il prima possibile”.
Svapora così, ingloriosamente, l’aura di miracolo attorno all’intero sistema del microcredito, ormai da molte parti accusato – ne parlava ieri anche il Financial Times, con una pagina intitolata: “Piccolo prestito, grosso problema” – di assomigliare a una forma organizzata di strozzinaggio ammantata di politicamente corretto. Ormai “trasformata in business globale che collega la finanza internazionale con alcune delle comunità più povere del mondo”, come scrive il FT, la microfinanza si regge su tassi di interesse che arrivano al trenta per cento. Tassi da usura, giustificati con il fatto che solo così è possibile prestare soldi a persone che, per la loro indigenza, non sarebbero mai prese in considerazione da una banca normale. Un “sistema di sfruttamento degli esseri umani, crudele come il nazismo e improntato soltanto su criteri di profitto”, accusa l’attivista per i diritti umani indiano Lenin Raghunvashi, con agenti remunerati in funzione del numero di clienti e del tasso di rimborso, e incitati a spingere al prestito, prima, e a forzare al rimborso con ogni mezzo, dopo.
Il risultato è che, negli ultimi due mesi, una cinquantina di suicidi nelle zone più povere dell’India sono stati con sicurezza collegati alla pratica dei piccoli prestiti senza garanzie. Gli stessi agenti incaricati di riscuotere le rate settimanali arrivano a suggerire il suicidio agli insolventi, per incassare l’indennizzo del fondo di protezione che interviene in caso di morte del debitore. L’Onu non si lasciò sfuggire (e come poteva?) l’occasione di proclamare il 2005 “anno del microcredito”. Solo cinque anni dopo, il “benefattore” è nudo.
In attesa di visitare quei musei, i nostri nipoti hanno potuto nel frattempo vedere un’inchiesta televisiva del giornalista danese Tom Heinemann, trasmessa martedì in Norvegia e intitolata “Intrappolato nel microdebito”. Nel documentario, Yunus è accusato di aver usato per scopi diversi da quelli inizialmente stabiliti buona parte di una donazione alla sua Banca dei poveri, equivalente a 74,5 milioni di euro ed elargita tra il 1996 e il 1998 da paesi come la stessa Norvegia, la Svezia, l’Olanda e la Germania. Invece di rimanere alla Grameen bank per finanziare le azioni di microcredito, una cifra pari a 47 milioni di euro vi transitò brevemente, prima di finire nelle casse di Grameen Kalyan, un’altra società che fa capo a Yunus e che si occupa di “microassicurazioni” sanitarie.
Di fronte alle rimostranze ufficiali dell’ambasciatore norvegese a Dacca, oltre che della Norwegian agency for development cooperation e del ministro delle Finanze del Bangladesh, Yunus aveva spiegato l’operazione piuttosto disinvolta con motivi fiscali e restituì comunque 17,6 milioni di sterline (una ventina di milioni di euro) a Grameen bank. La vicenda conserva però aspetti oscuri, e la stessa banca, dopo la messa in onda del documentario norvegese, ha annunciato più esaurienti spiegazioni “il prima possibile”.
Svapora così, ingloriosamente, l’aura di miracolo attorno all’intero sistema del microcredito, ormai da molte parti accusato – ne parlava ieri anche il Financial Times, con una pagina intitolata: “Piccolo prestito, grosso problema” – di assomigliare a una forma organizzata di strozzinaggio ammantata di politicamente corretto. Ormai “trasformata in business globale che collega la finanza internazionale con alcune delle comunità più povere del mondo”, come scrive il FT, la microfinanza si regge su tassi di interesse che arrivano al trenta per cento. Tassi da usura, giustificati con il fatto che solo così è possibile prestare soldi a persone che, per la loro indigenza, non sarebbero mai prese in considerazione da una banca normale. Un “sistema di sfruttamento degli esseri umani, crudele come il nazismo e improntato soltanto su criteri di profitto”, accusa l’attivista per i diritti umani indiano Lenin Raghunvashi, con agenti remunerati in funzione del numero di clienti e del tasso di rimborso, e incitati a spingere al prestito, prima, e a forzare al rimborso con ogni mezzo, dopo.
Il risultato è che, negli ultimi due mesi, una cinquantina di suicidi nelle zone più povere dell’India sono stati con sicurezza collegati alla pratica dei piccoli prestiti senza garanzie. Gli stessi agenti incaricati di riscuotere le rate settimanali arrivano a suggerire il suicidio agli insolventi, per incassare l’indennizzo del fondo di protezione che interviene in caso di morte del debitore. L’Onu non si lasciò sfuggire (e come poteva?) l’occasione di proclamare il 2005 “anno del microcredito”. Solo cinque anni dopo, il “benefattore” è nudo.
«Il Foglio» del 3 dicembre 2010
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