di Natascha Fioretti
Che Wikileaks avrebbe fatto il botto era prevedibile. Che si sarebbe tirato addosso le ire e le critiche di qualcuno, in particolare le istituzioni filo governative americane, e i media a loro vicini, anche. Ne è un esempio un pezzo uscito ieri sul Washington Post dal titolo poco equivoco “Fermate Wikileaks”, in cui la si accusa di essere, niente meno che un’organizzazione criminale con le mani imbrattate di sangue che deve essere subito fermata e il suo fondatore, Julian Assange, perseguito dalla legge. Come stupirsi: il pezzo é firmato Marc Thiessen, ex ghostwriter di George W. Bush. Molto di più, invece, mi ha colpito leggere il commento di Sergio Romano, “Wikileaks e il rischio ti trasparenza totale”, apparso sabato scorso sul maggior quotidiano della Svizzera italiana Corriere del Ticino.
Complice, forse, la sua passata esperienza di diplomatico e di ambasciatore alla NATO, il giornalista non ha attribuito un grande merito alle informazioni diffuse dal sito di Assange e pubblicate dai tre autorevoli giornali Guardian, New York Times e Der Spiegel. Anzi a suo avviso non rivelano nulla che già non si sapesse: “Rivisti con maggiore attenzione a qualche giorno di distanza, i 92.000 documenti sulla guerra afghana che Wikileaks ha dato in pasto alla pubblica opinione sono forse un po’ meno importanti di quanto sembrassero a prima vista […] non contengono rivelazioni di cui non fossimo già a conoscenza. Sapevamo che le forze americane ricorrono a operazioni speciali per l’eliminazione degli esponenti di al Qaeda. Sapevamo che i servizi segreti pakistani non hanno mai smesso, sin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, di coltivare rapporti con i gruppi islamici. Sapevamo che il numero delle vittime civili, provocate dalle incursioni degli aerei senza pilota, è elevato. E non ci ha sorpreso apprendere che Washington abbia nascosto parecchie informazioni imbarazzanti.“
Davvero l’opinione pubblica sapeva? E se i giornalisti erano al corrente, perchè hanno aspettato Wikileaks per fare il botto? E se invece fosse come ha scritto Marcello Foa sul sito dell’EJO qualche giorno fa: “La vicenda di Wikileaks rafforza questa convinzione: per sei anni il Pentagono ha nascosto notizie colossali. Non una, ma tante, tantissime; in teoria sarebbe stato facile venirne a conoscenza, perlomeno in parte, considerata anche l’arco di tempo, piuttosto ampio. Invece nessun giornalista, nemmeno d’inchiesta è riuscito a bucare la ferrea disciplina dell’ufficio comunicazione di Pentagono e Casa Bianca.”
C’è poi un altro punto interessante che emerge dal commento di Romano che si presta alla discussione: la questione della trasparenza a tutti i costi, che secondo il giornalista, oggi viene spesso invocata a sproposito diventando “una ideologia (la più radicale delle ideologie democratiche) che comincia a reclutare un notevole numero di fedeli” piuttosto che un sano principio da seguire, sia da parte delle istituzioni che dei giornalisti: “Come nel caso di Abu Ghraib e in altre vicende degli scorsi anni l’atto che sbugiarda i pubblici poteri viene percepito come un dovere morale; e il rivelatore della notizia segreta sembra recitare, contemporaneamente, la parte dell’angelo vendicatore e del martire della libertà. Le stesse considerazioni valgono per Wikileaks, il sito che si è specializzato nella rivelazione di segreti scottanti. Il suo direttore, Julian Assange, si dichiara giornalista, ma è in effetti un attivista politico, il crociato di una campagna per la trasparenza totale.”
E i tre autorevoli giornali che hanno collaborato con Wikileaks per provare la veridicità e la fondatezza dei documenti, decidendo poi di pubblicarli? Sono anche loro degli angeli vendicatori e dei martiri della libertà? Hanno anche loro agito in modo irresponsabile non pensando al rischio che molte persone correvano? O hanno adempito al loro ruolo di cani da guardia della democrazia e controllori del potere nell’interesse dell’opinione pubblica?
Domande a cui certamente non è facile rispondere. Ci ha provato Stephen Engelberg ex national security reporter in una accurata e approfondita analisi sul sito di ProPublica dal titolo “How Wikileaks Could Change the Way Reporters Deal with Secrets” nella quale ammette che è sempre stato difficile trovare un equilibrio tra le esigenze che impone la Sicurezza e quelle che prevede un sano giornalismo. Gli ufficiali superiori dell’intelligence non sono mai stati tranquilli al pensiero che la stampa avesse il diritto di prevaricare la loro decisione su cosa fosse segreto. Dal canto loro i giornalisti hanno sempre temuto che loro gonfiassero i pericoli di una eventuale pubblicazione al fine di bloccare storie imbarazzanti.” (“It has always been difficult to find a balance between the demands of security and robust journalism. Senior intelligence officials were never comfortable with the notion that the press had a right to overrule their judgment of what should be kept secret. For their part, reporters worried that officials would exaggerate the dangers of publication to block embarrassing stories.”)
A suo avviso, a rendere più precario e difficile l’equilibrio tra le due parti si aggiungono le potenzialità della rete. Un tempo infatti, dice il giornalista, gli ufficiali governativi che volevano passare delle notizie dovevano stabilire un contatto con il giornalista, costruire con lui un rapporto di fiducia e fisicamente sottrarre i documenti dai loro uffici per portarli in un posto sicuro. Un redattore aveva poi il compito di studiare il materiale e decidere se meritevole di essere pubblicato.” (“Government officials hoping to leak classified material once had to make contact with a reporter, build trust and physically carry documents out of their offices to a safe location. An editor would then study the material and decide whether it was newsworthy.”).
Complice, forse, la sua passata esperienza di diplomatico e di ambasciatore alla NATO, il giornalista non ha attribuito un grande merito alle informazioni diffuse dal sito di Assange e pubblicate dai tre autorevoli giornali Guardian, New York Times e Der Spiegel. Anzi a suo avviso non rivelano nulla che già non si sapesse: “Rivisti con maggiore attenzione a qualche giorno di distanza, i 92.000 documenti sulla guerra afghana che Wikileaks ha dato in pasto alla pubblica opinione sono forse un po’ meno importanti di quanto sembrassero a prima vista […] non contengono rivelazioni di cui non fossimo già a conoscenza. Sapevamo che le forze americane ricorrono a operazioni speciali per l’eliminazione degli esponenti di al Qaeda. Sapevamo che i servizi segreti pakistani non hanno mai smesso, sin dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, di coltivare rapporti con i gruppi islamici. Sapevamo che il numero delle vittime civili, provocate dalle incursioni degli aerei senza pilota, è elevato. E non ci ha sorpreso apprendere che Washington abbia nascosto parecchie informazioni imbarazzanti.“
Davvero l’opinione pubblica sapeva? E se i giornalisti erano al corrente, perchè hanno aspettato Wikileaks per fare il botto? E se invece fosse come ha scritto Marcello Foa sul sito dell’EJO qualche giorno fa: “La vicenda di Wikileaks rafforza questa convinzione: per sei anni il Pentagono ha nascosto notizie colossali. Non una, ma tante, tantissime; in teoria sarebbe stato facile venirne a conoscenza, perlomeno in parte, considerata anche l’arco di tempo, piuttosto ampio. Invece nessun giornalista, nemmeno d’inchiesta è riuscito a bucare la ferrea disciplina dell’ufficio comunicazione di Pentagono e Casa Bianca.”
C’è poi un altro punto interessante che emerge dal commento di Romano che si presta alla discussione: la questione della trasparenza a tutti i costi, che secondo il giornalista, oggi viene spesso invocata a sproposito diventando “una ideologia (la più radicale delle ideologie democratiche) che comincia a reclutare un notevole numero di fedeli” piuttosto che un sano principio da seguire, sia da parte delle istituzioni che dei giornalisti: “Come nel caso di Abu Ghraib e in altre vicende degli scorsi anni l’atto che sbugiarda i pubblici poteri viene percepito come un dovere morale; e il rivelatore della notizia segreta sembra recitare, contemporaneamente, la parte dell’angelo vendicatore e del martire della libertà. Le stesse considerazioni valgono per Wikileaks, il sito che si è specializzato nella rivelazione di segreti scottanti. Il suo direttore, Julian Assange, si dichiara giornalista, ma è in effetti un attivista politico, il crociato di una campagna per la trasparenza totale.”
E i tre autorevoli giornali che hanno collaborato con Wikileaks per provare la veridicità e la fondatezza dei documenti, decidendo poi di pubblicarli? Sono anche loro degli angeli vendicatori e dei martiri della libertà? Hanno anche loro agito in modo irresponsabile non pensando al rischio che molte persone correvano? O hanno adempito al loro ruolo di cani da guardia della democrazia e controllori del potere nell’interesse dell’opinione pubblica?
Domande a cui certamente non è facile rispondere. Ci ha provato Stephen Engelberg ex national security reporter in una accurata e approfondita analisi sul sito di ProPublica dal titolo “How Wikileaks Could Change the Way Reporters Deal with Secrets” nella quale ammette che è sempre stato difficile trovare un equilibrio tra le esigenze che impone la Sicurezza e quelle che prevede un sano giornalismo. Gli ufficiali superiori dell’intelligence non sono mai stati tranquilli al pensiero che la stampa avesse il diritto di prevaricare la loro decisione su cosa fosse segreto. Dal canto loro i giornalisti hanno sempre temuto che loro gonfiassero i pericoli di una eventuale pubblicazione al fine di bloccare storie imbarazzanti.” (“It has always been difficult to find a balance between the demands of security and robust journalism. Senior intelligence officials were never comfortable with the notion that the press had a right to overrule their judgment of what should be kept secret. For their part, reporters worried that officials would exaggerate the dangers of publication to block embarrassing stories.”)
A suo avviso, a rendere più precario e difficile l’equilibrio tra le due parti si aggiungono le potenzialità della rete. Un tempo infatti, dice il giornalista, gli ufficiali governativi che volevano passare delle notizie dovevano stabilire un contatto con il giornalista, costruire con lui un rapporto di fiducia e fisicamente sottrarre i documenti dai loro uffici per portarli in un posto sicuro. Un redattore aveva poi il compito di studiare il materiale e decidere se meritevole di essere pubblicato.” (“Government officials hoping to leak classified material once had to make contact with a reporter, build trust and physically carry documents out of their offices to a safe location. An editor would then study the material and decide whether it was newsworthy.”).
Da quello che abbiamo appreso in questi giorni, Wikileaks ha agito in questo modo, sottoponendo, prima di pubblicarli, i documenti alle redazioni del Guardian, del New York Times e del Der Spiegel. Informandone anche la Casa Bianca.
Il problema piuttosto è che oggi, aspiranti leaker, non hanno più bisogno dell’aiuto di un giornalista o della redazione di un giornale per fare circolare le informazioni: basta trovare il modo di bypassare le procedure di sicurezza del governo e zippare un e-mail ad un server sicuro.
E come ha scritto Sergio Romano, nulla di più facile da quando lo “scorso giugno il Parlamento islandese, aderendo alla proposta di una deputata anarchica, ha approvato all’unanimità una legge che garantisce uno scudo legale a chiunque diffonda, da una server situato in Islanda, documenti segreti sottratti per un interesse pubblico ad autorità pubbliche, banche e aziende.”
Alla luce di tutto questo appare evidente come sia complessa la vicenda e difficile darne una lettura univoca e sistematica.
Di certo c’è che l’affare Wikileaks ha messo in moto un processo irreversibile. E come ogni processo porta in sè qualcosa di buono e di meno buono. Di buono a mio avviso c’è che la rete ancora una volta ha dimostrato il suo punto forza: condividere e diffondere informazioni. Tra gli utenti certo, ma prima ancora con chi l’informazione la fa di mestiere, dimostrando che il lavoro di squadra con I giornali è possibile e vincente. Dimostrando che internet è fatto anche di siti e organizzazioni serie e valide che non pescano sempre a caso e pubblicano senza verificare. E soprattutto che l’autorevolezza oggi rimane una prerogativa della carta stampata piuttosto che di internet e della tv.
Per il resto c’è ancora molto da fare e da regolamentare. Sia da parte delle istituzioni e dei governi che dei mezzi di informazione. E come dimostra il dibattito incadescennte sollevato in questi giorni, siamo solo all’inizio. L’importante è credere nel cambiamento, nel miglioramento e, soprattutto, imparare dagli errori. Sbaglia chi crede di poter risolvere tutto “fermando Wikileaks”.
Il problema piuttosto è che oggi, aspiranti leaker, non hanno più bisogno dell’aiuto di un giornalista o della redazione di un giornale per fare circolare le informazioni: basta trovare il modo di bypassare le procedure di sicurezza del governo e zippare un e-mail ad un server sicuro.
E come ha scritto Sergio Romano, nulla di più facile da quando lo “scorso giugno il Parlamento islandese, aderendo alla proposta di una deputata anarchica, ha approvato all’unanimità una legge che garantisce uno scudo legale a chiunque diffonda, da una server situato in Islanda, documenti segreti sottratti per un interesse pubblico ad autorità pubbliche, banche e aziende.”
Alla luce di tutto questo appare evidente come sia complessa la vicenda e difficile darne una lettura univoca e sistematica.
Di certo c’è che l’affare Wikileaks ha messo in moto un processo irreversibile. E come ogni processo porta in sè qualcosa di buono e di meno buono. Di buono a mio avviso c’è che la rete ancora una volta ha dimostrato il suo punto forza: condividere e diffondere informazioni. Tra gli utenti certo, ma prima ancora con chi l’informazione la fa di mestiere, dimostrando che il lavoro di squadra con I giornali è possibile e vincente. Dimostrando che internet è fatto anche di siti e organizzazioni serie e valide che non pescano sempre a caso e pubblicano senza verificare. E soprattutto che l’autorevolezza oggi rimane una prerogativa della carta stampata piuttosto che di internet e della tv.
Per il resto c’è ancora molto da fare e da regolamentare. Sia da parte delle istituzioni e dei governi che dei mezzi di informazione. E come dimostra il dibattito incadescennte sollevato in questi giorni, siamo solo all’inizio. L’importante è credere nel cambiamento, nel miglioramento e, soprattutto, imparare dagli errori. Sbaglia chi crede di poter risolvere tutto “fermando Wikileaks”.
Articolo apparso sul sito «L’Osservatorio europeo di giornalismo» del 5 agosto 2010
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