di Jean-Louis Bruguès
Nella maggior parte delle società dell’Europa occidentale diventa sempre più visibile e più forte la presenza di popolazioni islamiche. In Francia, Olanda e Germania la religione islamica è ormai diventata la seconda religione dopo il cristianesimo. Questa potenza accresciuta dell’islam sta provocando cambiamenti profondi nella percezione del fenomeno religioso da parte di un’opinione pubblica fortemente secolarizzata.
In negativo, si potrebbe dire, che questa stessa opinione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proibire ogni insegnamento confessionale nelle scuole, ritenendolo una fonte di divisione sociale, sostituendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positivo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo propriamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso molto antiche della laicità.
Se l’islam si considera una religione squisitamente comunitaria, e quindi sociale, al punto che il termine comunità è quello che più la caratterizza, è sempre più difficile relegare il fenomeno religioso nel privato, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di <+corsivo>aver chiuso<+tondo> con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sull’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il magistero ha proposto una Carta dello sviluppo legittimo della teologia cattolica delle religioni. È dunque all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’economia della salvezza?
La domanda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondializzazione e del pluralismo culturale che, come è stato ricordato sopra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda molto tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giustino sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buona fede». È necessario, dunque, rifarsi agli antichi. Non è impossibile, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su problematiche nuove o almeno riproposte. Cosa direbbe Tommaso d’Aquino?
Vale la pena ricordare prima di tutto una proposizione teologica audace, relativa alla salvezza personale degli infedeli, che non è sicuro sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è necessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso coloro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’Agostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, raccoglie igiusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessariamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo una esistenza contraria alle prescrizioni della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e soprattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cristiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferimento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il racconto dei suoi viaggi in Estremo Oriente.
Per quanto riguarda i maomettani, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’Aquino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poiché questi non riconoscono alcuna autorità alle Sacre Scritture, è inutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguardare la ragione naturale.
Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tommaso riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della filosofia araba, Avicenna o Averroè.
In effetti, egli stesso non ha mai letto il Corano, anche se ai suoi tempi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di persone, che fa apparire il cristianesimo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli ostacoli più grandi nello scambio teologico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico né il pagano; ma l’uno e l’altro la conoscono secondo una certa ragione di casualità, o d’eminenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’Aquino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspettato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teologico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo diverso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chiedono quale atteggiamento adottare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a promuovere insieme con i musulmani «la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chiesa non ha mai avuto una conoscenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squisitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto elevato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il verificarsi dei mali nel mondo, per timore che eliminandoli siano impediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani costituiscano dei peccati.
Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel senso spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai essere costretti ad abbracciare la fede in Cristo; non abbiamo il diritto di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Príncipi infedeli possono legittimamente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dalla legge naturale.
In negativo, si potrebbe dire, che questa stessa opinione ha sempre più la tendenza ad associare religione e violenza, a tal punto che alcuni Paesi stanno considerando la possibilità di proibire ogni insegnamento confessionale nelle scuole, ritenendolo una fonte di divisione sociale, sostituendolo invece con una scoperta fredda del fatto religioso. In positivo, la presenza massiccia dell’islam obbliga a riconsiderare il ruolo propriamente sociale di queste stesse religioni e le pratiche spesso molto antiche della laicità.
Se l’islam si considera una religione squisitamente comunitaria, e quindi sociale, al punto che il termine comunità è quello che più la caratterizza, è sempre più difficile relegare il fenomeno religioso nel privato, cioè nello spazio ristretto della coscienza individuale. Così è nato il concetto, inatteso, della laicità positiva, per coloro che credevano di <+corsivo>aver chiuso<+tondo> con il religioso.
Nel 2000, nel rendere pubblica la Dichiarazione Dominus Jesus sull’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, il magistero ha proposto una Carta dello sviluppo legittimo della teologia cattolica delle religioni. È dunque all’interno di questa «carta» che conviene formulare le seguenti domande: come capire l’Islam? Qual è il valore delle sue dottrine e istituzioni culturali? Qual è il suo posto in ciò che noi chiamiamo l’economia della salvezza?
La domanda è nuova in quanto viene posta nel contesto della mondializzazione e del pluralismo culturale che, come è stato ricordato sopra, sono caratteristiche tipiche della società del nostro tempo. Si tratta anche di una domanda molto tradizionale, nel senso che da molto tempo, in verità fin dalla sua nascita, durante l’impero romano, il cristianesimo si è interrogato con personalità forti come san Giustino sulla possibilità della salvezza personale per gli «infedeli in buona fede». È necessario, dunque, rifarsi agli antichi. Non è impossibile, dopotutto, che questi antichi riescano a illuminarci su problematiche nuove o almeno riproposte. Cosa direbbe Tommaso d’Aquino?
Vale la pena ricordare prima di tutto una proposizione teologica audace, relativa alla salvezza personale degli infedeli, che non è sicuro sia condivisa oggi da tutti i teologi. Tommaso insegna che non si può essere salvati senza la fede in Cristo, ma che non è necessario che questa fede sia per tutti così esplicita come presso coloro che hanno avuto la fortuna di ricevere il Vangelo. Già per sant’Agostino o Gregorio il Grande, la Chiesa vera che supera di molto i confini istituzionali visibili, raccoglie igiusti di tutti i tempi. «Dio vuole salvare le persone di ogni categoria», scrive il domenicano, «uomini e donne, giudei e gentili, piccoli e grandi; ma non necessariamente tutte le persone di ogni categoria», cioè non quelle che si sono escluse da sé conducendo una esistenza contraria alle prescrizioni della legge naturale.
Tommaso conosceva due tipi di non-cristiani: i musulmani, a cui si sta facendo riferimento, e soprattutto i giudei, più vicini perché vivono all’interno del mondo cristiano. Può darsi che egli avesse sentito parlare dei Mongoli e dei Tartari, ma, salvo errore da parte nostra, egli non vi fa alcun riferimento particolare; Marco Polo non aveva ancora fatto uscire il racconto dei suoi viaggi in Estremo Oriente.
Per quanto riguarda i maomettani, o i saraceni (a volte egli usa l’espressione i mori), Tommaso d’Aquino ci offre tre intuizioni che noi avremmo certamente interesse ad approfondire. In primo luogo, poiché questi non riconoscono alcuna autorità alle Sacre Scritture, è inutile portare la discussione su questo terreno; gli argomenti di scambio non possono che riguardare la ragione naturale.
Notiamo di passaggio che, anche se egli li combatte vigorosamente, Tommaso riconosce il valore intellettuale dei migliori rappresentanti della filosofia araba, Avicenna o Averroè.
In effetti, egli stesso non ha mai letto il Corano, anche se ai suoi tempi c’erano due traduzioni in latino. In secondo luogo, il loro Dio non è sicuramente quella trinità di persone, che fa apparire il cristianesimo ai loro occhi come una specie di politeismo – e si sa che questo punto costituisce uno degli ostacoli più grandi nello scambio teologico –, ma egli è comunque una sola persona: «La natura di Dio, come è in sé, non la conosce né il cattolico né il pagano; ma l’uno e l’altro la conoscono secondo una certa ragione di casualità, o d’eminenza, o di negazione».
Si può pensare che Tommaso d’Aquino, per i due motivi appena menzionati, non si sarebbe aspettato di ottenere grandi risultati da uno scambio propriamente teologico tra le due religioni (sarebbe andato sicuramente in modo diverso per uno scambio filosofico). È l’opinione della maggioranza dei teologi ancora oggi. Per contro, i cristiani dei nostri tempi si chiedono quale atteggiamento adottare nei confronti dei musulmani. Di fatto la Dichiarazione Nostra aetate incoraggia i cristiani a promuovere insieme con i musulmani «la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» per tutti gli uomini.
Sicuramente il Dottore della Chiesa non ha mai avuto una conoscenza diretta di questo ambiente. Egli propone una riflessione squisitamente teologica. Affrontando la questione da un punto molto elevato, ci offre un prezioso filone di ricerca. Egli ricorda che nella sua onnipotenza Dio permette il verificarsi dei mali nel mondo, per timore che eliminandoli siano impediti dei beni ancora più grandi. Non afferma che la pratica di un culto pagano sia un bene in sé, ma non conclude neanche che tutte le azioni di questi stessi pagani costituiscano dei peccati.
Alcuni tra loro, come il centurione Cornelio degli Atti degli Apostoli, possono anche non essere infedeli nel senso spirituale del termine. In ogni caso, i pagani non devono mai essere costretti ad abbracciare la fede in Cristo; non abbiamo il diritto di battezzare dei bambini non cristiani contro la volontà dei loro genitori. Tommaso va oltre: i Príncipi infedeli possono legittimamente esercitare la loro autorità su soggetti cristiani, perché il diritto divino della grazia della fede non sopprime la sovranità né l’autorità del diritto umano che emana dalla legge naturale.
«Avvenire» del 15 dicembre 2010
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