La sentenza sull’Irlanda dei giudici di Strasburgo Accolto, però, uno dei tre ricorsi contro i divieti
di Pier Luigi Fornari
Diritto di aborto? Non rientra nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, né si può far derivare da essa.
È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Strasburgo sul cosiddetto 'caso A, B e C', emessa ieri dai magistrati insediati nel capoluogo dell’Alsazia. Sentenza non priva di zone d’ombra, nella quale l’Irlanda viene assolta (con il voto di undici giudici contro otto) da due ricorsi presentati per i limiti posti alla interruzione volontaria della gravidanza e viene condannata all’unanimità a risarcire 15mila euro ad una donna convalescente di cancro, che ha ritenuto la sua vita messa a rischio dalla continuazione della gravidanza, recandosi poi in Gran Bretagna per porvi termine. A detta dei giudici europei, sarebbe stato in questo caso violato l’articolo 8 della Convenzione relativo al «diritto al rispetto della vita privata e familiare».
Comunque nello stesso verdetto si afferma esplicitamente che quel medesimo articolo non «può essere interpretato in modo da consacrare un diritto all’aborto». Lo European centre for Law and Justice (Eclj), che è intervenuto come terza parte a sostegno di Dublino, accoglie con soddisfazione il fatto che la Corte abbia riconosciuto un «diritto alla vita del nascituro».
Da rilevare nel pronunciamento di Strasburgo il passo in cui si sostiene che «l’Irlanda vietando l’aborto per motivi di salute e di benessere della donna sulla base di profonde idee morali del suo popolo sulla natura della vita e sulla consequente protezione da garantire alla vita dei nascituri», rientra nel «margine di apprezzamento », cioè in quella sfera che è di competenza degli Stati sulle questioni etiche. Anche considerando che Dublino è l’unico Stato che consente l’interruzione volontaria della gravidanza solo nel caso di rischio di vita della donna, la Corte non ritiene che la tendenza prevalente in Europa a favore dell’aborto limiti «la sovranità » di quel Paese di applicare una legislazione restrittiva in materia. Un passaggio successivo della decisione di Strasburgo afferma, però, che le autorità dell’Irlanda «hanno mancato di adottare delle disposizioni legislative o regolamentari che istituiscano una procedura accessibile e efficace attraverso la quale la ricorrente avrebbe potuto stabilire se poteva abortire in Irlanda sulla base dell’articolo 40.3.33 della Costituzione ». Nella norma della Carta fondamentale irlandese citata si sostiene che «lo Stato afferma il diritto alla vita del nascituro e, tenuto conto dell’eguale diritto alla vita della madre, garantisce nella propria legislazione il riconoscimento e, per quanto possibile, l’esercizio effettivo e la tutela di tale diritto, attraverso idonee disposizioni normative». I magistrati del Consiglio d’Europa, a cui aderiscono 47 Stati membri, nel loro verdetto hanno ritenuto che le autorità irlandesi sono venute meno ai loro obblighi «positivi di assicurare alla ricorrente un rispetto effettivo della sua vita privata». Vi sarebbe stata, secondo la sentenza, una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, ma solo nei confronti di una delle tre donne che hanno voluto ricorrere a Strasburgo contro l’Irlanda.
È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Strasburgo sul cosiddetto 'caso A, B e C', emessa ieri dai magistrati insediati nel capoluogo dell’Alsazia. Sentenza non priva di zone d’ombra, nella quale l’Irlanda viene assolta (con il voto di undici giudici contro otto) da due ricorsi presentati per i limiti posti alla interruzione volontaria della gravidanza e viene condannata all’unanimità a risarcire 15mila euro ad una donna convalescente di cancro, che ha ritenuto la sua vita messa a rischio dalla continuazione della gravidanza, recandosi poi in Gran Bretagna per porvi termine. A detta dei giudici europei, sarebbe stato in questo caso violato l’articolo 8 della Convenzione relativo al «diritto al rispetto della vita privata e familiare».
Comunque nello stesso verdetto si afferma esplicitamente che quel medesimo articolo non «può essere interpretato in modo da consacrare un diritto all’aborto». Lo European centre for Law and Justice (Eclj), che è intervenuto come terza parte a sostegno di Dublino, accoglie con soddisfazione il fatto che la Corte abbia riconosciuto un «diritto alla vita del nascituro».
Da rilevare nel pronunciamento di Strasburgo il passo in cui si sostiene che «l’Irlanda vietando l’aborto per motivi di salute e di benessere della donna sulla base di profonde idee morali del suo popolo sulla natura della vita e sulla consequente protezione da garantire alla vita dei nascituri», rientra nel «margine di apprezzamento », cioè in quella sfera che è di competenza degli Stati sulle questioni etiche. Anche considerando che Dublino è l’unico Stato che consente l’interruzione volontaria della gravidanza solo nel caso di rischio di vita della donna, la Corte non ritiene che la tendenza prevalente in Europa a favore dell’aborto limiti «la sovranità » di quel Paese di applicare una legislazione restrittiva in materia. Un passaggio successivo della decisione di Strasburgo afferma, però, che le autorità dell’Irlanda «hanno mancato di adottare delle disposizioni legislative o regolamentari che istituiscano una procedura accessibile e efficace attraverso la quale la ricorrente avrebbe potuto stabilire se poteva abortire in Irlanda sulla base dell’articolo 40.3.33 della Costituzione ». Nella norma della Carta fondamentale irlandese citata si sostiene che «lo Stato afferma il diritto alla vita del nascituro e, tenuto conto dell’eguale diritto alla vita della madre, garantisce nella propria legislazione il riconoscimento e, per quanto possibile, l’esercizio effettivo e la tutela di tale diritto, attraverso idonee disposizioni normative». I magistrati del Consiglio d’Europa, a cui aderiscono 47 Stati membri, nel loro verdetto hanno ritenuto che le autorità irlandesi sono venute meno ai loro obblighi «positivi di assicurare alla ricorrente un rispetto effettivo della sua vita privata». Vi sarebbe stata, secondo la sentenza, una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, ma solo nei confronti di una delle tre donne che hanno voluto ricorrere a Strasburgo contro l’Irlanda.
Dublino dovrà pagare 15mila euro a donna malata di cancro che interruppe la gravidanza all’estero. «Mancano procedure chiare a cui ricorrere in tali casi»
«Avvenire» del 17 dicembre 2010
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