La riservatezza è una virtù. Indispensabile
di Giuseppe O. Longo
L’affaire Wikileaks ci pone di fronte a un paradosso.
Da una parte desideriamo essere informati di tutto, vagheggiamo una società trasparente in cui le informazioni circolino senza nessun ostacolo.
D’altra parte ciascun individuo, ciascun gruppo, ciascuna organizzazione conserva nell’armadio uno scheletro o scheletrino che deve poter custodire in nome di quell’altro grande diritto che è la privatezza, diritto che si oppone al diritto d’informazione. Ogni organismo, biologico o sociale, ha la necessità di mantenere segreti alcuni degli scambi comunicativi che vi si svolgono, pena la paralisi: come ce la caveremmo se dovessimo seguire tutti gli scambi d’informazione tra cervello e cuore, come potremmo sopravvivere se dovessimo controllare tutti i processi digestivi e tutti i segnali nervosi? Non tutti gli scambi debbono arrivare a livello della coscienza, altrimenti ci bloccheremmo.
Allo stesso modo, in una società, la piena trasparenza porterebbe all’arresto di certi meccanismi essenziali. In un suo bellissimo testo Gregory Bateson fece l’elogio del sacro, che identificava con il silenzio, la riservatezza, il rispetto per quelle zone della vita dove, riprendendo un verso di Alexander Pope, gli angeli esitano a posare il piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti. In una società del tutto e facilissimamente aperta agli scambi la paralisi seguirebbe da due fattori: in primo luogo se tutte le informazioni potessero giungere sotto gli occhi o dentro gli orecchi di tutti, molti messaggi non sarebbero neppure formulati, oppure sarebbero affidati a livelli superiori di segretezza (codici e cifrari sempre più raffinati), quindi l’attività comunicativa subirebbe gravi limitazioni, con pregiudizio di molte attività politiche, diplomatiche, giudiziarie. Per non parlare dell’uso distorto e strumentale che molti ne farebbero, specie in un’epoca come la nostra in cui il pettegolezzo, la chiacchiera e la calunnia alimentano ogni giorno scandali e volgarità.
La seconda ragione della paralisi deriverebbe dalla propensione umana alla curiosità: immagino turbe di cittadini con l’occhio e l’orecchio applicati alle fonti dell’informazione totale, che riverserebbero su di loro notizie a getto continuo. Il piacere di questo origliare impedirebbe a molti di staccarsene: ne soffrirebbero il lavoro, la vita familiare, i sereni svaghi, gli affetti amicali. Nel funzionamento di una società complessa ci sono molti livelli di riservatezza che vanno rispettati, e saggezza imporrebbe una misurata distribuzione delle notizie alle varie categorie, ai vari gruppi, alle varie classi. Alcune notizie debbono essere fornite a tutti, altre a pochi o pochissimi e sempre a tempo e luogo. Ciò che si racconta all’amico non si racconta al primo che passa.
L’operazione Wikileaks ha destato le preoccupazioni delle cancellerie, ma anche la soddisfazione maligna di molti che, esclusi dalle stanze del potere, si sono sentiti risarciti della loro condizione minoritaria, e ciò a prescindere dal contenuto dei messaggi rivelati, a volte già noto, a volte banale, a volte cospicuo, ma spesso poco interessante se non sotto il profilo dell’indiscrezione. Di recente sono state portate alla luce negli archivi di Propaganda Fide alcune lettere cifrate del 1715, scambiate tra la Santa Sede e i missionari in Cina. Se il loro contenuto fosse stato propalato da un Assange del Settecento, quali ne sarebbero state le conseguenze? Una crisi diplomatica, e non solo, tra Europa e Cina, con effetti sconvolgenti sulla storia. Chi va a curiosare dietro le quinte spesso resta deluso, guasta gli effetti della regia, e ne ritorna disincantato.
L’arte si nutre di una sapiente miscela di detto e non detto, nella letteratura la verità si afferma negandosi. Il desiderio, coltivato dagli scienziati, di dire tutto, di illuminare tutto, di rivelare tutto può essere fatale al buon funzionamento della società, della vita di coppia, dell’amicizia, dei rapporti umani.
Da una parte desideriamo essere informati di tutto, vagheggiamo una società trasparente in cui le informazioni circolino senza nessun ostacolo.
D’altra parte ciascun individuo, ciascun gruppo, ciascuna organizzazione conserva nell’armadio uno scheletro o scheletrino che deve poter custodire in nome di quell’altro grande diritto che è la privatezza, diritto che si oppone al diritto d’informazione. Ogni organismo, biologico o sociale, ha la necessità di mantenere segreti alcuni degli scambi comunicativi che vi si svolgono, pena la paralisi: come ce la caveremmo se dovessimo seguire tutti gli scambi d’informazione tra cervello e cuore, come potremmo sopravvivere se dovessimo controllare tutti i processi digestivi e tutti i segnali nervosi? Non tutti gli scambi debbono arrivare a livello della coscienza, altrimenti ci bloccheremmo.
Allo stesso modo, in una società, la piena trasparenza porterebbe all’arresto di certi meccanismi essenziali. In un suo bellissimo testo Gregory Bateson fece l’elogio del sacro, che identificava con il silenzio, la riservatezza, il rispetto per quelle zone della vita dove, riprendendo un verso di Alexander Pope, gli angeli esitano a posare il piede e dove gli stolti si precipitano vociferanti. In una società del tutto e facilissimamente aperta agli scambi la paralisi seguirebbe da due fattori: in primo luogo se tutte le informazioni potessero giungere sotto gli occhi o dentro gli orecchi di tutti, molti messaggi non sarebbero neppure formulati, oppure sarebbero affidati a livelli superiori di segretezza (codici e cifrari sempre più raffinati), quindi l’attività comunicativa subirebbe gravi limitazioni, con pregiudizio di molte attività politiche, diplomatiche, giudiziarie. Per non parlare dell’uso distorto e strumentale che molti ne farebbero, specie in un’epoca come la nostra in cui il pettegolezzo, la chiacchiera e la calunnia alimentano ogni giorno scandali e volgarità.
La seconda ragione della paralisi deriverebbe dalla propensione umana alla curiosità: immagino turbe di cittadini con l’occhio e l’orecchio applicati alle fonti dell’informazione totale, che riverserebbero su di loro notizie a getto continuo. Il piacere di questo origliare impedirebbe a molti di staccarsene: ne soffrirebbero il lavoro, la vita familiare, i sereni svaghi, gli affetti amicali. Nel funzionamento di una società complessa ci sono molti livelli di riservatezza che vanno rispettati, e saggezza imporrebbe una misurata distribuzione delle notizie alle varie categorie, ai vari gruppi, alle varie classi. Alcune notizie debbono essere fornite a tutti, altre a pochi o pochissimi e sempre a tempo e luogo. Ciò che si racconta all’amico non si racconta al primo che passa.
L’operazione Wikileaks ha destato le preoccupazioni delle cancellerie, ma anche la soddisfazione maligna di molti che, esclusi dalle stanze del potere, si sono sentiti risarciti della loro condizione minoritaria, e ciò a prescindere dal contenuto dei messaggi rivelati, a volte già noto, a volte banale, a volte cospicuo, ma spesso poco interessante se non sotto il profilo dell’indiscrezione. Di recente sono state portate alla luce negli archivi di Propaganda Fide alcune lettere cifrate del 1715, scambiate tra la Santa Sede e i missionari in Cina. Se il loro contenuto fosse stato propalato da un Assange del Settecento, quali ne sarebbero state le conseguenze? Una crisi diplomatica, e non solo, tra Europa e Cina, con effetti sconvolgenti sulla storia. Chi va a curiosare dietro le quinte spesso resta deluso, guasta gli effetti della regia, e ne ritorna disincantato.
L’arte si nutre di una sapiente miscela di detto e non detto, nella letteratura la verità si afferma negandosi. Il desiderio, coltivato dagli scienziati, di dire tutto, di illuminare tutto, di rivelare tutto può essere fatale al buon funzionamento della società, della vita di coppia, dell’amicizia, dei rapporti umani.
«Avvenire» del 10 dicembre 2010
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