Wikileaks, dibattito sull'informazione nell'era di internet
di Juan Carlos De Martin
La discussione intorno al caso Wikileaks è stata finora sconcertante. Molti, infatti, sembrano aver dimenticato - spero solo momentaneamente - conquiste acquisite da decenni. Su tutte, i due pilastri che reggono la libertà di stampa dai «Pentagon Papers» (inizio Anni 70) a oggi: da una parte, lo Stato ha diritto di fare tutto quanto in suo potere per ostacolare la fuoriuscita di informazioni oggettivamente riservate; dall’altra, la stampa ha pieno diritto di pubblicare quanto le viene recapitato - basta che faccia notizia. Una discussione «senza inibizioni, robusta e la più aperta possibile» è, infatti, ritenuta da decenni essenziale all’emersione della verità e alla formazione di una pubblica opinione consapevole, anche a costo di qualche eccesso e anche a costo di divulgare segreti.
Ma allora qual è il problema con Wikileaks? Wikileaks, infatti, non ha rubato, hackerato, sottratto alcuna informazione; ha semplicemente pubblicato documenti che ha ricevuto (Wikileaks offre una buca delle lettere online sicura), dopo averne verificato la veridicità e dopo aver ritenuto che facessero notizia. Esattamente come avrebbe fatto un qualsiasi giornale. E, infatti, nel caso specifico dei dispacci diplomatici americani, così hanno fatto alcuni tra i più rispettati e influenti giornali al mondo, come il New York Times, Le Monde e Der Spiegel.
Dovrebbe, quindi, essere naturale concludere che Wikileaks si colloca pienamente nel solco della libertà di stampa così come intesa in tutte le democrazie avanzate e come tale venire apprezzata come qualsiasi altro mezzo di informazione.
In questi confusi giorni, invece, molti riescono a sostenere che la medesima azione è contemporaneamente normale e criminale, a seconda se a farla sia il New York Times o piuttosto un gruppo di cittadini guidati da un australiano anticonformista. Come si dice in questi casi, aut aut: o una cosa o l’altra.
Riflettere su questa evidente contraddizione può, però, aiutare a ridurre un po’ lo sconcerto. Perché la questione non è - si spera - la messa in discussione di importanti conquiste democratiche - anche se c’è il concreto rischio che certe posizioni affrettate in merito al caso Wikileaks possano contribuire, sia pure involontariamente, a ridurre la libertà di stampa dei media tradizionali in futuro.
La questione sembra piuttosto essere, da una parte, un problema di limite e dall’altra parte, un problema di attori.
Per problema di limite, in senso matematico, intendo l’enorme potenziamento della libertà di espressione reso possibile da Internet. Un diritto considerato fondante delle nostre democrazie da più di due secoli ora è esercitabile da ogni singolo cittadino, non solo da pochi. Se alla libertà di espressione crediamo davvero, dovremmo solo rallegrarci di questo sviluppo. Numerose reazioni fanno invece pensare che almeno per qualcuno la libertà di espressione va bene in astratto, ma non se accessibile a tutti.
Il secondo problema sembra essere un problema di attori. Lo suggerisce la contraddizione ricordata prima: come fa la medesima azione a essere allo stesso tempo normale e criminale a seconda se a farla è un giornale tradizionale o un gruppo di persone qualunque? È ora di accettarlo, a tutti i livelli: Internet democratizza la libertà di espressione. Lo si dice da anni, eppure ci è voluto il caso Wikileaks per farlo entrare nella coscienza di tutti. In altre parole, di fronte alla libertà di espressione, che piaccia o meno, non ci sono categorie privilegiate di attori: siamo tutti uguali davanti ai diritti fondamentali.
Preoccupano, però, certe reazioni. Le reazioni dei governi democratici, in particolare. Invece di trarre le conseguenze dell’interazione tra i loro principi fondanti e Internet - chiare da anni a tutti coloro che volessero vederle - molti hanno avuto reazioni da ancient régime. Siamo, quindi, potenzialmente a una svolta. Possiamo reagire chiudendoci in difesa, rinnegando conquiste civili importanti e provando ad abolire Internet. O possiamo riconoscere in questi sviluppi una conferma dei nostri valori e portare la nostra democrazia nel ventunesimo secolo. Spero che, passate le reazioni a caldo, non ci siano dubbi sulla direzione da intraprendere nell’interesse di tutti.
Ma allora qual è il problema con Wikileaks? Wikileaks, infatti, non ha rubato, hackerato, sottratto alcuna informazione; ha semplicemente pubblicato documenti che ha ricevuto (Wikileaks offre una buca delle lettere online sicura), dopo averne verificato la veridicità e dopo aver ritenuto che facessero notizia. Esattamente come avrebbe fatto un qualsiasi giornale. E, infatti, nel caso specifico dei dispacci diplomatici americani, così hanno fatto alcuni tra i più rispettati e influenti giornali al mondo, come il New York Times, Le Monde e Der Spiegel.
Dovrebbe, quindi, essere naturale concludere che Wikileaks si colloca pienamente nel solco della libertà di stampa così come intesa in tutte le democrazie avanzate e come tale venire apprezzata come qualsiasi altro mezzo di informazione.
In questi confusi giorni, invece, molti riescono a sostenere che la medesima azione è contemporaneamente normale e criminale, a seconda se a farla sia il New York Times o piuttosto un gruppo di cittadini guidati da un australiano anticonformista. Come si dice in questi casi, aut aut: o una cosa o l’altra.
Riflettere su questa evidente contraddizione può, però, aiutare a ridurre un po’ lo sconcerto. Perché la questione non è - si spera - la messa in discussione di importanti conquiste democratiche - anche se c’è il concreto rischio che certe posizioni affrettate in merito al caso Wikileaks possano contribuire, sia pure involontariamente, a ridurre la libertà di stampa dei media tradizionali in futuro.
La questione sembra piuttosto essere, da una parte, un problema di limite e dall’altra parte, un problema di attori.
Per problema di limite, in senso matematico, intendo l’enorme potenziamento della libertà di espressione reso possibile da Internet. Un diritto considerato fondante delle nostre democrazie da più di due secoli ora è esercitabile da ogni singolo cittadino, non solo da pochi. Se alla libertà di espressione crediamo davvero, dovremmo solo rallegrarci di questo sviluppo. Numerose reazioni fanno invece pensare che almeno per qualcuno la libertà di espressione va bene in astratto, ma non se accessibile a tutti.
Il secondo problema sembra essere un problema di attori. Lo suggerisce la contraddizione ricordata prima: come fa la medesima azione a essere allo stesso tempo normale e criminale a seconda se a farla è un giornale tradizionale o un gruppo di persone qualunque? È ora di accettarlo, a tutti i livelli: Internet democratizza la libertà di espressione. Lo si dice da anni, eppure ci è voluto il caso Wikileaks per farlo entrare nella coscienza di tutti. In altre parole, di fronte alla libertà di espressione, che piaccia o meno, non ci sono categorie privilegiate di attori: siamo tutti uguali davanti ai diritti fondamentali.
Preoccupano, però, certe reazioni. Le reazioni dei governi democratici, in particolare. Invece di trarre le conseguenze dell’interazione tra i loro principi fondanti e Internet - chiare da anni a tutti coloro che volessero vederle - molti hanno avuto reazioni da ancient régime. Siamo, quindi, potenzialmente a una svolta. Possiamo reagire chiudendoci in difesa, rinnegando conquiste civili importanti e provando ad abolire Internet. O possiamo riconoscere in questi sviluppi una conferma dei nostri valori e portare la nostra democrazia nel ventunesimo secolo. Spero che, passate le reazioni a caldo, non ci siano dubbi sulla direzione da intraprendere nell’interesse di tutti.
«La Stampa» del 9 dicembre 2010
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