di Lucia Annunziata
Un mortale duello fra due eroi di un nuovo mondo. L’arresto del fondatore di Wikileaks fa esplodere anche, fra le tante cose, un conflitto fra due eroi moderni, appunto, entrambi espressione della rivoluzione che il web ha operato nella politica e nella informazione, entrambi nati dentro e per buona parte grazie alla rete - Julian Assange e Barack Obama.
Del legame fra Julian e la Rete sappiamo, ovviamente, tutto. Ma pochi sembrano ricordare in questi giorni quanto intrecciata sia con Internet anche la presidenza Obama. Il «cambio» che portò due anni fa il candidato democratico a Washington nacque in effetti proprio dal web e fu proprio l’uso di questo nuovo strumento a certificarne la rottura con il passato. Quando Barack Obama si affacciò sulla scena delle primarie, il suo nome era quello di un brillante ma marginale politico.
Rispetto al sistema poderoso, oleato, iperistituzionalizzato della macchina da guerra dei Clinton la sua campagna elettorale apparve per molti lunghi mesi una sorta di speranzoso tentativo, destinato a dare i suoi frutti in un futuro distante. Nella sorpresa generale Obama vinse invece una elezione dopo l’altra nelle primarie, Stato dopo Stato, con una tattica che - poi gli analisti se ne sarebbero resi conto - combinava la riscoperta del più tradizionale strumento politico, il contatto a pelle con le persone, e il più innovativo degli strumenti di aggregazione, il web appunto.
Una squadra di giovani che fu descritta come «miracolosa» mise in piedi il più capillare network politico che avesse visto la rete: email inviate ogni giorno, possibilità di contattare il gruppo intorno al candidato quasi minuto per minuto, calendari e agenda aggiornati al momento. Se si ricorda, su rete venne lanciata una campagna di raccolta di contributi individuali dei sostenitori di Obama, che azzerò il senso stesso di quelle adunate per ricchi con cui fino ad allora si erano identificate le raccolte dei fondi. Tra Hillary che andava alle cene di New York per cercare donazioni, e Obama che raccoglieva su rete i suoi pochi ma valorosi spiccioli, la differenza divenne un marchio di novità e successo per il futuro presidente.
La rete provò alla fine di essere - se usata in maniera vasta e socializzata - il modo per riportare alla politica ampi strati di popolazione che da anni non votavano più: la vittoria di Obama, come ci dicono le statistiche, è stata dovuta in particolare al ritorno alle urne di giovani che vennero da lui convinti a votare proprio grazie alla novità del suo modo di far politica.
L’affetto e la gratitudine del nuovo Presidente per la rete si espressero, d’altra parte, appena eletto, quando, facendo sobbalzare il mondo, annunciò che lui avrebbe rinunziato a tutto ma non al suo «blackberry», confessandosi totalmente «dipendente» dalla posta su rete. Ancora oggi, del resto, quell’ampio network messo in piedi per le primarie funziona, e ancora oggi infatti se mai siete stati agganciati allora dalla campagna elettorale democratica, continuate a ricevere più volte ogni settimana annunci da parte di Obama che vi chiede questo e vi spiega quello e che vi invita a rimanere in contatto.
C’è dunque una sorta di «poetica vendetta» nel fatto che, tra le altre cose, al Presidente americano sia toccato ora fare la parte del «repressore» della rete. Che proprio contro di lui il web abbia sganciato, volendolo o no, una bomba destabilizzante quale è la pubblicazione dei documenti del Dipartimento di Stato. È in ogni caso molto significativo, e certo lacerante per coloro che lo sostengono, vedere ora Obama nel ruolo di chi chiede l’arresto di Assange che oggi è il simbolo della libertà di espressione, della efficacia della trasparenza, del potere della rete. Pagherà un prezzo molto alto il Presidente per questa sua posizione su Assange - perderà consenso presso la sua base elettorale più appassionata, più dinamica, più a lui vicina.
Ma, oltre che una «poetica vendetta» della storia, in questo nuovo ruolo di Obama c’è tutto il racconto della inevitabilità del potere. La vicenda personale del Presidente americano, e non solo per quel che riguarda il web, sembra potersi racchiudere in fondo tutta in questo apologo: il potere ha le sue leggi e non importa quante promesse puoi fare prima, una volta conquistato è difficile gestirlo cambiandone la natura. Va detto con tristezza, non sarà Obama il primo profeta che il sistema ha divorato.
Del legame fra Julian e la Rete sappiamo, ovviamente, tutto. Ma pochi sembrano ricordare in questi giorni quanto intrecciata sia con Internet anche la presidenza Obama. Il «cambio» che portò due anni fa il candidato democratico a Washington nacque in effetti proprio dal web e fu proprio l’uso di questo nuovo strumento a certificarne la rottura con il passato. Quando Barack Obama si affacciò sulla scena delle primarie, il suo nome era quello di un brillante ma marginale politico.
Rispetto al sistema poderoso, oleato, iperistituzionalizzato della macchina da guerra dei Clinton la sua campagna elettorale apparve per molti lunghi mesi una sorta di speranzoso tentativo, destinato a dare i suoi frutti in un futuro distante. Nella sorpresa generale Obama vinse invece una elezione dopo l’altra nelle primarie, Stato dopo Stato, con una tattica che - poi gli analisti se ne sarebbero resi conto - combinava la riscoperta del più tradizionale strumento politico, il contatto a pelle con le persone, e il più innovativo degli strumenti di aggregazione, il web appunto.
Una squadra di giovani che fu descritta come «miracolosa» mise in piedi il più capillare network politico che avesse visto la rete: email inviate ogni giorno, possibilità di contattare il gruppo intorno al candidato quasi minuto per minuto, calendari e agenda aggiornati al momento. Se si ricorda, su rete venne lanciata una campagna di raccolta di contributi individuali dei sostenitori di Obama, che azzerò il senso stesso di quelle adunate per ricchi con cui fino ad allora si erano identificate le raccolte dei fondi. Tra Hillary che andava alle cene di New York per cercare donazioni, e Obama che raccoglieva su rete i suoi pochi ma valorosi spiccioli, la differenza divenne un marchio di novità e successo per il futuro presidente.
La rete provò alla fine di essere - se usata in maniera vasta e socializzata - il modo per riportare alla politica ampi strati di popolazione che da anni non votavano più: la vittoria di Obama, come ci dicono le statistiche, è stata dovuta in particolare al ritorno alle urne di giovani che vennero da lui convinti a votare proprio grazie alla novità del suo modo di far politica.
L’affetto e la gratitudine del nuovo Presidente per la rete si espressero, d’altra parte, appena eletto, quando, facendo sobbalzare il mondo, annunciò che lui avrebbe rinunziato a tutto ma non al suo «blackberry», confessandosi totalmente «dipendente» dalla posta su rete. Ancora oggi, del resto, quell’ampio network messo in piedi per le primarie funziona, e ancora oggi infatti se mai siete stati agganciati allora dalla campagna elettorale democratica, continuate a ricevere più volte ogni settimana annunci da parte di Obama che vi chiede questo e vi spiega quello e che vi invita a rimanere in contatto.
C’è dunque una sorta di «poetica vendetta» nel fatto che, tra le altre cose, al Presidente americano sia toccato ora fare la parte del «repressore» della rete. Che proprio contro di lui il web abbia sganciato, volendolo o no, una bomba destabilizzante quale è la pubblicazione dei documenti del Dipartimento di Stato. È in ogni caso molto significativo, e certo lacerante per coloro che lo sostengono, vedere ora Obama nel ruolo di chi chiede l’arresto di Assange che oggi è il simbolo della libertà di espressione, della efficacia della trasparenza, del potere della rete. Pagherà un prezzo molto alto il Presidente per questa sua posizione su Assange - perderà consenso presso la sua base elettorale più appassionata, più dinamica, più a lui vicina.
Ma, oltre che una «poetica vendetta» della storia, in questo nuovo ruolo di Obama c’è tutto il racconto della inevitabilità del potere. La vicenda personale del Presidente americano, e non solo per quel che riguarda il web, sembra potersi racchiudere in fondo tutta in questo apologo: il potere ha le sue leggi e non importa quante promesse puoi fare prima, una volta conquistato è difficile gestirlo cambiandone la natura. Va detto con tristezza, non sarà Obama il primo profeta che il sistema ha divorato.
«La Stampa» del 9 dicembre 2010
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