di Roberto Volpi
Sono in ballo, nelle scuole superiori e nelle università, le generazioni dei nati in Italia tra la seconda metà degli anni ottanta e la prima dei novanta, ovvero le generazioni del più formidabile tempo della rarefazione dei figli che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto. E non scherzo. Indici di fecondità ai minimi di sempre, figli unici che diventano maggioranza, fratelli che latitano, cugini che spariscono, parentadi ridotti ai minimi termini, bambini che si guardano attorno e non trovano che adulti e vecchi, che incontrano i pari età in situazioni, nidi e materne, istituzionali e protette, che giocano quasi esclusivamente al chiuso, che ai parchi pubblici, rigorosamente deprivati di possibilità ludiche, si muovono impacciati rincorsi dalle voci di nonni doppiamente premurosi e apprensivi dei genitori. Cresciuti a cellulari e facebook. I primi, veri adolescenti e giovani imbozzolati, protetti, rassicurati e rincalzati da genitori fioriti al tempo dell’espansione dei consumi al di là delle possibilità collettive e delle responsabilità individuali, limitati all’essenziale nelle possibilità generative per non compromettere status e tenore di vita conquistati in tempi facili e generosi.
Queste generazioni, le prime la cui assoluta esiguità numerica si accompagna all’assoluta artificialità dell’allevamento e dell’educazione e alla protezione a trecentosessanta gradi da ogni possibile interferenza esterna, eventualità avversa, accadimento imprevisto, fanno massa perché non hanno imparato a loro tempo a frequentare gli altri e a stare in gruppo, ci si perdono perché non sanno misurarcisi, la alimentano perché pensano che grazie ad essa verranno spinte in avanti e qualcosa succederà. Non c’è, nella protesta di queste generazioni contro la legge di riforma Gelmini, un senso di frustrazione per quello che si apparecchia loro davanti, quanto piuttosto la paura della terra sconosciuta che le aspetta e dello sforzo che saranno chiamate a fare per cercare di conquistarla. Non sono, ahimè, le generazioni del futuro, ma quelle che temono il futuro. Non le generazioni meglio attrezzate, ma quelle più mediocremente predisposte per i giorni nient’affatto facili che ci aspettano. Prima la smettiamo di raccontarci favole sulla bella gioventù di oggi prima ci mettiamo in condizioni di aiutare quella gioventù a fare qualche passo per diventarlo.
Sono venti o trent’anni che gioventù, famiglia, scuola e università si muovono, non a caso all’unisono, non a caso con una straordinaria caduta di conflittualità tra studenti genitori e insegnanti, per stemperare le difficoltà nel raggiungimento di un traguardo che minaccia di diventare inservibile: un titolo di studio tanto più santificato quanto sempre meno spendibile nel lavoro e sempre meno utile alla società. E’ la crescente futilità intrinseca dell’approdo, e non la difficoltà oggettiva del percorso, che decima l’esercito dei partecipanti.
La legge di riforma Gelmini è timida. Ma forse è meglio così, perché università famiglie giovani sono di una debolezza tale che qualsivoglia passo davvero riformatore li getterebbe nello sgomento. La pretestuosa rivolta dei professori contro un modesto ma onesto passo avanti, contro ogni possibilità di valutazione, contro ogni premio del merito, pencolante tra propositi altisonanti e pianti sulle risorse perdute, misura il drammatico distacco tra ciò che è e ciò che servirebbe. Ma resta il primo distacco al quale si deve mettere mano.
Queste generazioni, le prime la cui assoluta esiguità numerica si accompagna all’assoluta artificialità dell’allevamento e dell’educazione e alla protezione a trecentosessanta gradi da ogni possibile interferenza esterna, eventualità avversa, accadimento imprevisto, fanno massa perché non hanno imparato a loro tempo a frequentare gli altri e a stare in gruppo, ci si perdono perché non sanno misurarcisi, la alimentano perché pensano che grazie ad essa verranno spinte in avanti e qualcosa succederà. Non c’è, nella protesta di queste generazioni contro la legge di riforma Gelmini, un senso di frustrazione per quello che si apparecchia loro davanti, quanto piuttosto la paura della terra sconosciuta che le aspetta e dello sforzo che saranno chiamate a fare per cercare di conquistarla. Non sono, ahimè, le generazioni del futuro, ma quelle che temono il futuro. Non le generazioni meglio attrezzate, ma quelle più mediocremente predisposte per i giorni nient’affatto facili che ci aspettano. Prima la smettiamo di raccontarci favole sulla bella gioventù di oggi prima ci mettiamo in condizioni di aiutare quella gioventù a fare qualche passo per diventarlo.
Sono venti o trent’anni che gioventù, famiglia, scuola e università si muovono, non a caso all’unisono, non a caso con una straordinaria caduta di conflittualità tra studenti genitori e insegnanti, per stemperare le difficoltà nel raggiungimento di un traguardo che minaccia di diventare inservibile: un titolo di studio tanto più santificato quanto sempre meno spendibile nel lavoro e sempre meno utile alla società. E’ la crescente futilità intrinseca dell’approdo, e non la difficoltà oggettiva del percorso, che decima l’esercito dei partecipanti.
La legge di riforma Gelmini è timida. Ma forse è meglio così, perché università famiglie giovani sono di una debolezza tale che qualsivoglia passo davvero riformatore li getterebbe nello sgomento. La pretestuosa rivolta dei professori contro un modesto ma onesto passo avanti, contro ogni possibilità di valutazione, contro ogni premio del merito, pencolante tra propositi altisonanti e pianti sulle risorse perdute, misura il drammatico distacco tra ciò che è e ciò che servirebbe. Ma resta il primo distacco al quale si deve mettere mano.
«Il Foglio» del 22 dicembre 2010
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