di Davide Rondoni
Più che una lettera, questa è una supplica. O qualcosa dove l’invettiva, la supplica e il silenzio si rincorrono in una strano, definitivo investimento. Vi dico: siete dei monaci. E dei guerrieri. Non tradite pure voi, in questo generale tradimento di chierici e di giornalisti, di “esperti” di comunicazione e di editori o agenzie di eventi culturali… Siete monaci e guerrieri a custodia e a incremento di un bene prezioso, che nessuno quasi più comprende. O di cui molti parlano ma già così incartapecoriti e in naftalina di retorica o di buone intenzioni…La chiamano: letteratura. Ma non è altro che vita continuamente ridestata della lingua, della prima e umile e ricca relazione di cui la natura ci ha dotato. E’, attraverso la lingua, vita che si ridesta alla vita, cioè alla coscienza. Siete monaci e guerrieri della vita della lingua, che è come dire vita del pensiero –o della ragione, se vogliamo ridirlo. Perché cosa è la letteratura? Pila di libri che intasa le librerie? Classifica in fondo al Corriere? O allegato de La Repubblica? O biblioteca delle biblioteche? O ultima delle mode? Un elenco di classici opposto a un altro? No, la letteratura o come la volete chiamare quella galleria di voci, è un’esperienza. Siete, che lo vogliate o no, sul fronte di una guerra che ha in palio la sparizione del fenomeno chiamato poesia, cioè una guerra sulla radice stessa della esperienza linguistica nel suo aspetto di corrispondenza tentata con il mondo, di risposta al segreto che delle cose colpisce e invita. Non la sparizione, no. Perché non sparirà mai, essendo tra i fenomeni umani primari. Come la fame, come il sesso, e il lutto. Ma la sua riduzione per fraentindimento. La sua anestesia. La collocazione tra i noiosi intrattenimenti, ovvero tra i paradossi inutili ai più. Invece, la vita ci chiama, fin da piccoli, a non usare solo i nomi dell’anagrafe. Non bastano le parole dell’anagrafe stabilita dalle leggi o quella spesso più tetra e misera imposta (e con che formidabili strumenti) dall’uso. All’amata, ai figli inventiamo soprannomi per provare a dire quel che di loro, in tenerezza e timore, ci parla. Dante diceva che a volte si usano le parole per dire quello che non si sa. La lingua aperta e tesa al segreto del mondo è l’inizio e per così dire il concerto della letteratura. Al cuore, alla ragione non bastano le parole spente che ci mettono in bocca. Se il cuore e la ragione sono ancora vivi. Se ascoltano il mondo. Se ne ricevono il colpo di presenza. Siete monaci, e guerrieri. Mal pagati. Messi a lavorare talvolta in condizioni spaventose. Tra editori e, spesso, dirigenti che non capiscono niente di tutto questo. In ambiti dove tutto sembra concorrere a mortificare la vita, e dunque anche la lingua. Tra burocrazia, pruriti che sembrano pestilenze, e sciabordìo morto dell’abitudine. Tentati di far come tutti, parandosi dietro a questioni sindacali o familiari. Parandosi dietro alla difficoltà. Ma il monaco e il guerriero abitano la difficoltà. Non fanno solo un mestiere. Ne fanno centomila per l’esito della buona battaglia. Se avete difficoltà economiche andate a rubare, fate gli unici espropri che avrebbe senso fare. O fate cooperative, leghe di insegnanti di lettere, mutue, fate la questua. Dovrebbero pagarvi a miliardi, altro che i grandi manager… Ma tanto l’unica vostra dignità professionale è data dall’aver fatto tremare o sgranare gli occhi a qualcuno leggendo la pagina di un capolavoro come se si stesse scrivendo ora lì con voi, collaborando a scriverla la vostra vita intera. Non è questione di soldi. E non importa se coraggiosi o coltissimi, o se tremanti o spavaldi. Il fatto è che siete lì, ora, in questa specie di trincea, in questo combattimento corpo a corpo. E’ nelle vostre mani –nelle vostre più che in altre- la responsabilità di non far morire il dolce suono e il movimento della nostra lingua italiana. Lingua di poesia innanzitutto, come avviene in Francesco, in Jacopone, poi in Dante, in Petrarca, su fino a Leopardi, al leone Ungaretti e ai tanti, tantissimi che hanno nelle loro diverse misure e respiri tentato rilievo e giustizia alle parole. Trattandole per quel che sono: strumenti con cui inseguire il vero e indicarlo, come un Giovanni Battista clamante nel deserto, o come il sobbalzo nel ventre di Elisabetta. Viviamo in un’epoca di parole spente. In un’inflazione di parole che vengono addosso a generazioni che non è vero che leggon poco; leggono un sacco –dagli sms agli spot, ai giornali dati gratis nei metro- ma tutte cose in cui le parole sono morte. Lettura in cui non c’è vita. Dove non si chiede niente a chi legge, solo i suoi soldi, o l’opinione, o il voto. Lasciate perdere i programmi, le scadenze, i disegni analitico-storici…Fateli per quel minimo indispensabile. Che è vicino allo zero. Il disegno storico della letteratura a che serve a un ragazzo, se non si impara il gusto e lo scandalo della letteratura? Alzatevi in piedi, piuttosto, leggete. Fate teatro di questa vita della lingua quando in essa giunge il colpo della vita. Questo raddoppiamento della vita. Fate come avete visto fare davanti a voi da chi ha letto grandi pagine di letteratura investendole di se stesso, della propria domanda di felicità e scoprendo il segreto del mondo. Fate così, come i monaci in piedi, e i guerrieri. Perché da ovunque il nulla occhieggia. E cala sui viottoli o sulle autostrade della vostra possibile pigrizia, della vostra inappellabile buona coscienza, del vostro malinteso senso del dovere. Il destino mi ha assegnato una piccola parte nello scrivere versi, libri, miei e d’altri. E ora questo libercolo di letture condivise. A voi la parte di indicare e condividere la parola accesa della letteratura. Non lasciate si spenga, in occhi abbagliati di noia dalle scritte di rèclame. Il mio monastero è il vostro, e medesimo il campo minato. Scusate, anzi non scusate, il disturbo.
«Il Sole 24 Ore» del 5 settembre 2010
Nessun commento:
Posta un commento