di Franco La Cecla
In un piccolo prezioso pamphlet, Il silenzio dei libri, George Steiner ci rammenta che i libri potrebbero anche non esistere, che la loro presenza è fragile, che la storia è piena di roghi di libri, distruzioni di biblioteche, censure operate, falò di testi considerati pericolosi dai missionari di turno, fossero invasori musulmani ad Alessandria, spagnoli cristiani tra i templi maya o regimi totalitari. Ci ricorda anche che i libri sono qualcosa di nuovo e di strano rispetto alla preponderanza in molte civiltà della cultura orale sulla scritta. Platone, lo stesso Platone che scrive i dialoghi socratici, è il primo a lamentare i danni della scrittura, danni alla capacità di prendere la parola sul serio, danni rispetto alla memoria, alla natura vivente della voce. Steiner aggiunge che nei libri c’è un’auctoritas che rende lo scritto 'troppo' fisso rispetto all’elasticità del parlato, le versioni orali dei miti sono continuamente in cambiamento, quelle scritte sono immobili come mummie. E poi i libri, dice Steiner, rischiano di farci credere che la vita vera sia quella che si trova lì dentro. Detto questo Steiner si confessa e rivela il suo amore spropositato per i libri. Faccio mio il suo amore e cerco di raccontare l’altra faccia della medaglia. In giro con la coraggiosa direttrice di una cooperativa di produttori di caffè negli altopiani a 2500 metri del Guatemala ci siamo imbattuti in un vecchio maya molto acciaccato a cui avevamo portato un medico. Il vecchio non aveva un soldo per pagare i servizi del medico e per ringraziarlo si è messo a recitare un poema in lingua maya, un poema lunghissimo. Per fortuna con noi c’era uno studioso di epica che con grande stupore ci ha rivelato che il vecchio stava recitando un poema che apparteneva ad un’epopea scritta, ma che era stata bruciata con tutti gli altri libri dagli spagnoli invasori. Eravamo dinanzi a qualcosa che io avevo vissuto solo guardando il film Fahrenheit 451, un uomo diventato libro per salvare la memoria di libri bruciati (451 è il grado fahrenheit a cui brucia la carta). Un’altra pedina per l’amore dei libri. Quando li ho scoperti ragazzino, ho scoperto che la vita può essere molto più interessante della versione mediocre e noiosa che pervade l’ottica con cui il quotidiano è vissuto nella nostra società. Ho imparato ad osservare i particolari, a pensare che ogni persona è un’avventura , che ogni vita è un romanzo. I libri hanno a volte il potere di ridare colore alla vita, di fare scoprire a chi la sta vivendo che ci sono possibilità inedite e impensate, che si può cambiare, vivere altre vite. I libri, i buoni libri, la buona letteratura ci dicono che è possibile guardare alla vita come farebbe Dio, con l’attenzione, la passione e la partecipazione di qualcuno che ne ha una visione più ampia. I miei primi romanzi mi facevano pensare che ogni romanziere è un po’ Dio, ne ha le qualità di presa sul serio della vita. In letteratura, lo dice Franz Kermode, sono tutti parte di un’escatologia, raccontano la vita 'dandole una direzione', tutti i romanzi sono riprese della grande avventura che è il destino che ci circonda.
«Avvenire» del 7 dicembre 2010
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