di Giuliano Ferrara
La scena è stata grave, ma i suoi attori sono stati di una desolante pochezza. La guerriglia urbana nata dall’interno dei due grandi cortei autorizzati di sindacati, studenti e centri sociali è arrivata davvero a sfiorare i centri del potere: appena dopo il voto di fiducia alla Camera che ha fatto da detonatore annunciato – anche se poco prima era circolata la falsa notizia della sfiducia a Berlusconi, accolta con canti e balli prematuri (forse, tutto sommato, un poco delusi dalla “buona notizia”?) – ci sono stati scontri e cariche attorno al Senato blindato dalla polizia e con gli ingressi tutti sbarrati, i parlamentari sono stati trattenuti all’interno del Parlamento per ragioni di sicurezza, Palazzo Grazioli – la residenza del premier – è stato attaccato con bombe carta evidentemente già preparate, la sede della Protezione civile è stata assaltata dai manifestanti armati di mazze e protetti da caschi e passamontagna. Ma il tutto è durato lo spazio di una mezz’ora e si è quasi subito trasformato in una lenta ritirata verso zone meno istituzionali e protette, un paio di chilometri più a nord, dove il black bloc ha avuto naturalmente più occasioni di fare danni e di aggredire i drappelli isolati delle forze dell’ordine.
In via del Babuino, via Tomacelli, via del Corso e piazza del Popolo, per poi allungarsi verso piazzale Flaminio e sfiorare il quartiere Prati, i violenti hanno distrutto automobili, appiccato il fuoco ad altri sei veicoli – compresi un camion dell’Ama e un blindato della Guardia di Finanza, ma prima hanno preso computer portatili e portafogli dei finanzieri – hanno sfasciato le vetrine dei negozi, divelto i sampietrini per bombardare le camionette dei carabinieri, abbattuto le reti dei cantieri, bersagliato polizia e passanti dall’alto della terrazza di Villa Borghese, incendiato cassonetti e trasformato Porta del Popolo in una barricata con tutto quello che avevano sotto mano: semafori abbattuti, pezzi di un malcapitato chiosco ambulante, cartelloni strappati, transenne rovesciate. Tra le tre e le quattro del pomeriggio la violenza ha toccato il massimo: un finanziere circondato e malmenato dagli assalitori è stato costretto a impugnare la pistola d’ordinanza, il fumo delle automobili in fiamme s’è allargato basso sopra la zona, gli scambi lacrimogeni contro pietrate sono diventati più fitti.
Al suo apice, la vampata s’è spenta. Dopo essersi staccato dal grosso della manifestazione, dove è facile confondersi tra gli altri, i rivoltosi del bloc hanno poca autonomia operativa. L’elicottero a bassa quota dei carabinieri ha cominciato a spostarsi ancora più verso nord, per seguirne i membri durante il finale scontato: disperdersi e dileguarsi (dieci giovani sono stati comunque arrestati). I violenti a volto coperto con accento del nord hanno lasciato spazio agli studenti romani, dall’aria decisamente meno agguerrita e più bighellona. I cori hanno perso convinzione e compattezza ideologica, e si sono rotti in conversazioni singole con i romani disapprovanti affacciati alle finestre. “Il governo ci ruba il lavoro, l’aria e l’acqua”. “E che ve la prendete con i semafori nostri?”.
Il resto della manifestazione è stato inghiottito dalla normalità di Roma. Agli stessi incroci dove i pompieri finiscono di spegnere le carcasse delle macchine, i primi colpi di clacson chiedono agli studenti di spostarsi. La vostra ora è finita, dicono gli automobilisti impazziti, ridate spazio al traffico.
In via del Babuino, via Tomacelli, via del Corso e piazza del Popolo, per poi allungarsi verso piazzale Flaminio e sfiorare il quartiere Prati, i violenti hanno distrutto automobili, appiccato il fuoco ad altri sei veicoli – compresi un camion dell’Ama e un blindato della Guardia di Finanza, ma prima hanno preso computer portatili e portafogli dei finanzieri – hanno sfasciato le vetrine dei negozi, divelto i sampietrini per bombardare le camionette dei carabinieri, abbattuto le reti dei cantieri, bersagliato polizia e passanti dall’alto della terrazza di Villa Borghese, incendiato cassonetti e trasformato Porta del Popolo in una barricata con tutto quello che avevano sotto mano: semafori abbattuti, pezzi di un malcapitato chiosco ambulante, cartelloni strappati, transenne rovesciate. Tra le tre e le quattro del pomeriggio la violenza ha toccato il massimo: un finanziere circondato e malmenato dagli assalitori è stato costretto a impugnare la pistola d’ordinanza, il fumo delle automobili in fiamme s’è allargato basso sopra la zona, gli scambi lacrimogeni contro pietrate sono diventati più fitti.
Al suo apice, la vampata s’è spenta. Dopo essersi staccato dal grosso della manifestazione, dove è facile confondersi tra gli altri, i rivoltosi del bloc hanno poca autonomia operativa. L’elicottero a bassa quota dei carabinieri ha cominciato a spostarsi ancora più verso nord, per seguirne i membri durante il finale scontato: disperdersi e dileguarsi (dieci giovani sono stati comunque arrestati). I violenti a volto coperto con accento del nord hanno lasciato spazio agli studenti romani, dall’aria decisamente meno agguerrita e più bighellona. I cori hanno perso convinzione e compattezza ideologica, e si sono rotti in conversazioni singole con i romani disapprovanti affacciati alle finestre. “Il governo ci ruba il lavoro, l’aria e l’acqua”. “E che ve la prendete con i semafori nostri?”.
Il resto della manifestazione è stato inghiottito dalla normalità di Roma. Agli stessi incroci dove i pompieri finiscono di spegnere le carcasse delle macchine, i primi colpi di clacson chiedono agli studenti di spostarsi. La vostra ora è finita, dicono gli automobilisti impazziti, ridate spazio al traffico.
«Il Foglio» del 15 dicembre 2010
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