di Giorgio De Simone
Unione Sovietica, anni Venti. Il calcio 'borghese' dell’Impero russo è finito e nasce il futból proletario. E una seconda rivoluzione e ce la racconta tutta, con un’analisi suggestiva e circostanziata che arriva al 1953, Mario Alessandro Curletto, docente di Letteratura e civiltà russe all’Università di Pavia. Con il 1917 alle spalle, la Russia si riempie di grandi progetti dove lo sport va a coniugarsi con la lotta di classe. Non fa parte la Russia sovietica della Fifa e non può disputare incontri internazionali ufficiali, ma poiché forte è il bisogno di confrontarsi, nel 1923 viene raccolto l’invito dell’Unione operaia svedese per una tournée di amichevoli in Scandinavia.
È l’inizio di un’attività internazionale su vagoni di terza classe. Sconfitte la Svezia 2 a 1 e la Norvegia 3 a 2, si parla di trionfo. E quando tocca alla Turchia 'borghese' di Atatürk, battuta 3 a 0 e 2 a 1, di epopea. Nel 1927 si va in Germania e sono nove vittorie, nessun pareggio e una sola sconfitta (1 a 3) contro gli operai di Vienna. Reti fatte 64, subite 14. Il calcio è ormai in Urss un fenomeno di costume e tuttavia, per avere il primo campionato e vedere all’opera squadre quali la Dinamo, il Cdka (Casa centrale dell’Armata rossa), lo Spartak Mosca dei fratelli Starostin e il Lokomotiv di Mosca, si deve aspettare il 1936. Quanto alle tattiche di gioco, il calcio russo è fermo alla 'piramide', due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti tutti in linea mentre in Europa è già il tempo della 'W' o 'doppia V', modulo considerato borghese perché 'indegnamente difensivo'. E peraltro l’allenatore della Dinamo, Boris Arkad’ev, arriva a vincere il campionato inventandosi il 'caos organizzato', ovvero il continuo scambio di posizione fra i tre attaccanti e i difensori che avanzano. È il 1940. L’anno dopo la guerra ferma il pallone, ma alla fame, agli stenti, al pericolo perenne solo il calcio può fare da antidoto. La propaganda lo sa e così si torna a giocare a Mosca, ma anche in una Leningrado dal ’41 al ’44 assediata dai tedeschi. E a Kiev, il 16 novembre 1943, tra la Dinamo e una rappresentativa tedesca ricavata dalle truppe di occupazione va in scena la cosiddetta 'partita della morte' così chiamata perché, battuti sonoramente sul campo, i tedeschi si vendicano internando i giocatori ucraini e perseguendone alcuni fino a decretare la morte di quattro di loro: Nikolaj Trusevic, Aleksej Klimenko, Nikolaj Korotckich, Ivan Kuz’menko. Nel 1946 un giornale fa una ricostruzione cinematografica della partita elevandola a leggenda e assegnandole così un destino di libri, film, medaglie al valore e monumenti. Ma una rivisitazione fatta decenni dopo dal giocatore Makar Goncarenco racconta di una squadra di calcio allestita dal ceco Josef Kordik, diventato sotto i nazisti direttore del Panificio industriale n.1 e in grado, come tale, di riunire i migliori giocatori sotto le sue ali. Dopodiché la partita della morte sarebbe stata giocata il 9 agosto 1942 tra la Start di Kordik e la Flakelf tedesca, punteggio 5 a 3 con due reti del 'testimone' Goncarenco. E sarebbe stata l’uccisione di un ufficiale tedesco a portare alla morte, per ritorsione, di Trusevic, Kuz’menko e Kilmenko.
Nel 1951 rinasce, affidata al Ct Boris Arkad’ev, la nazionale sovietica per partecipare alle Olimpiadi di Helsinki dell’anno dopo. Ma nella Russia di Stalin partecipare vuol dire una cosa sola: vincere. Per riuscirci Arkad’ev si affida all’ossatura del Cdsa (ex Cdka) e al trentenne Vsevolod Bobrov, grande centravanti e leader carismatico. Soffocata dall’obbligo di vincere, quando deve incontrare la forte Jugoslavia dell’odiato Tito, la squadra è attanagliata dal panico. Sul campo incassa quattro gol in cinquanta minuti, ma a quel punto reagisce e la partita finisce, inverosimilmente, 5 a 5 con tre reti di Bobrov. Ripetuta due giorni dopo sotto l’ombra cupa di un telegramma di Stalin, la Jugoslavia vince 3 a 1 e il licenziamento-degradamento dell’allenatore nonché lo scioglimento del Cdsa sono le prime conseguenze. Le seconde sarebbero anche peggiori se, il 5 marzo 1953, Stalin non morisse. Tutto (o quasi) a quel punto si spegne e per i calciatori sovietici torna a valere quanto detto da uno di loro, Konstantin Belikov: «Quando hai il pallone tra i piedi ti si allarga il cuore».
Mario Alessandro Curletto, I piedi del soviet, Il melangolo, pp. 238, € 11,00
È l’inizio di un’attività internazionale su vagoni di terza classe. Sconfitte la Svezia 2 a 1 e la Norvegia 3 a 2, si parla di trionfo. E quando tocca alla Turchia 'borghese' di Atatürk, battuta 3 a 0 e 2 a 1, di epopea. Nel 1927 si va in Germania e sono nove vittorie, nessun pareggio e una sola sconfitta (1 a 3) contro gli operai di Vienna. Reti fatte 64, subite 14. Il calcio è ormai in Urss un fenomeno di costume e tuttavia, per avere il primo campionato e vedere all’opera squadre quali la Dinamo, il Cdka (Casa centrale dell’Armata rossa), lo Spartak Mosca dei fratelli Starostin e il Lokomotiv di Mosca, si deve aspettare il 1936. Quanto alle tattiche di gioco, il calcio russo è fermo alla 'piramide', due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti tutti in linea mentre in Europa è già il tempo della 'W' o 'doppia V', modulo considerato borghese perché 'indegnamente difensivo'. E peraltro l’allenatore della Dinamo, Boris Arkad’ev, arriva a vincere il campionato inventandosi il 'caos organizzato', ovvero il continuo scambio di posizione fra i tre attaccanti e i difensori che avanzano. È il 1940. L’anno dopo la guerra ferma il pallone, ma alla fame, agli stenti, al pericolo perenne solo il calcio può fare da antidoto. La propaganda lo sa e così si torna a giocare a Mosca, ma anche in una Leningrado dal ’41 al ’44 assediata dai tedeschi. E a Kiev, il 16 novembre 1943, tra la Dinamo e una rappresentativa tedesca ricavata dalle truppe di occupazione va in scena la cosiddetta 'partita della morte' così chiamata perché, battuti sonoramente sul campo, i tedeschi si vendicano internando i giocatori ucraini e perseguendone alcuni fino a decretare la morte di quattro di loro: Nikolaj Trusevic, Aleksej Klimenko, Nikolaj Korotckich, Ivan Kuz’menko. Nel 1946 un giornale fa una ricostruzione cinematografica della partita elevandola a leggenda e assegnandole così un destino di libri, film, medaglie al valore e monumenti. Ma una rivisitazione fatta decenni dopo dal giocatore Makar Goncarenco racconta di una squadra di calcio allestita dal ceco Josef Kordik, diventato sotto i nazisti direttore del Panificio industriale n.1 e in grado, come tale, di riunire i migliori giocatori sotto le sue ali. Dopodiché la partita della morte sarebbe stata giocata il 9 agosto 1942 tra la Start di Kordik e la Flakelf tedesca, punteggio 5 a 3 con due reti del 'testimone' Goncarenco. E sarebbe stata l’uccisione di un ufficiale tedesco a portare alla morte, per ritorsione, di Trusevic, Kuz’menko e Kilmenko.
Nel 1951 rinasce, affidata al Ct Boris Arkad’ev, la nazionale sovietica per partecipare alle Olimpiadi di Helsinki dell’anno dopo. Ma nella Russia di Stalin partecipare vuol dire una cosa sola: vincere. Per riuscirci Arkad’ev si affida all’ossatura del Cdsa (ex Cdka) e al trentenne Vsevolod Bobrov, grande centravanti e leader carismatico. Soffocata dall’obbligo di vincere, quando deve incontrare la forte Jugoslavia dell’odiato Tito, la squadra è attanagliata dal panico. Sul campo incassa quattro gol in cinquanta minuti, ma a quel punto reagisce e la partita finisce, inverosimilmente, 5 a 5 con tre reti di Bobrov. Ripetuta due giorni dopo sotto l’ombra cupa di un telegramma di Stalin, la Jugoslavia vince 3 a 1 e il licenziamento-degradamento dell’allenatore nonché lo scioglimento del Cdsa sono le prime conseguenze. Le seconde sarebbero anche peggiori se, il 5 marzo 1953, Stalin non morisse. Tutto (o quasi) a quel punto si spegne e per i calciatori sovietici torna a valere quanto detto da uno di loro, Konstantin Belikov: «Quando hai il pallone tra i piedi ti si allarga il cuore».
Mario Alessandro Curletto, I piedi del soviet, Il melangolo, pp. 238, € 11,00
Bandito il modulo «a W» perché «indegnamente difensivo, quindi borghese», si esaltava il «caos organizzato»
«Avvenire» del 18 dicembre 2010
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