Wikileaks, il sito di Assange che ha generato il caos nella diplomazia, sfrutta in modo ambiguo quello che è ormai diventato un concetto chiave della Rete: la costruzione del sapere attraverso l’azione congiunta di innumerevoli autori-lettori. Non senza rischi
di di Matteo Liut
Se qualche dubbio c’era ancora, Wikileaks sembra aver confermato definitivamente il fatto che internet può dare la forza necessaria a un sapere condiviso per cambiare il mondo o, almeno, a destabilizzarlo.
Se il cambiamento sarà in meglio o in peggio saranno i posteri a giudicare, ma appare chiara ormai la potenza del ' wiki '. Tutto corretto, peccato che il sito dell’australiano Julian Assange e dei suoi innumerevoli e ignoti collaboratori conservi davvero poco dell’idea originaria del wiki , ovvero della costruzione collaborativa di contenuti e saperi. I documenti diffusi da Wikileaks , infatti, non sono testi scritti dagli utenti del sito stesso ma provengono da fonti ufficiali e l’unica modifica cui sono andati incontro prima della pubblicazione è stata l’eliminazione di alcuni dati considerati inutili per i fini di Assange. Se una 'truffa', insomma, può essere addebitata all’attivista è quella di aver immeritatamente apposto al proprio lavoro un aggettivo, wiki , che ormai in Rete è sinonimo di conoscenza libera, sempre migliorabile e davvero collaborativa. L’unica collaborazione che si può intravedere nel progetto di Wikileaks , invece, è quella finalizzata alla distribuzione più capillare possibile e alla salvaguardia dei dati segreti raccolti. La scelta del nome, forse, nasce dall’esigenza di dare una patina di nobiltà (almeno agli occhi degli utilizzatori di internet) a un lavoro tutto orientato alla fuga di notizie, come ben specifica la parola ' leaks ', che in inglese significa 'crepe, debolezze' (e quindi può essere inteso anche proprio come 'fughe di notizie'). Vale la pena, però, approfondire il concetto di wiki per capire perché i leaks di Assange con esso non abbiano nulla a che fare.
Nel perpetuo sforzo della diffusione della conoscenza, cresciuto accanto all’ideale classico di democrazia, la proposta cristiana ed evangelica ha fornito una sintesi innovativa tra condivisione del sapere e sua autorevolezza. Da un lato, infatti, si fonda sulla necessità di un annuncio diffuso a «tutti i popoli della terra», cui si aggiunge l’idea di comunione e condivisione di un ' sensus fidei ' che è patrimonio di tutti ed è parte fondamentale dell’identità comunitaria; dall’altro mette a garanzia dell’autorevolezza del sapere la sua forma e il suo riferimento trinitario. Il mondo moderno, forse, ha sempre fatto fatica a conciliare il sapere costruito dal basso con le necessarie garanzie di autorevolezza. Difficoltà che si sono mostrate in tutta la loro pericolosità nel XX secolo. Nel campo della tecnologia informatica l’utopia di un mondo costruito su una conoscenza condivisa è motore primo di ogni innovazione e non è certo internet ad averla inventata. Nel 1932 Vannevar Bush (1890-1974), scienziato statunitense, immaginò una macchina in grado di ordinare tutte le conoscenze scientifiche, facilitando le ricerche e le annotazioni personali e tenendo memoria dei percorsi esplorativi all’interno di questo sapere.
Il 'Memex' (da 'memory expansion') era talmente futuristico da non poter essere realizzato nemmeno nel 1945, anno in cui Bush scrisse il saggio As we may think («Come potremmo pensare»), viene considerata come l’antenato degli ipertesti, cioè quella modalità di connettere i testi tra loro attraverso parole chiave che è alla base della Rete. La parola ipertesto di fatto risale al 1963 e si deve a Theodor Holm Nelson, sociologo e filosofo statunitense, che lavorò per trent’anni al progetto 'Xanadu': un mondo virtuale in cui il lettore può fruire dei testi in modo 'tridimensionale' e mai legato a percorsi rigidi.
Il progetto non decollò mai perché fu superato dal più semplice World wide web ('www'), inventando nel 1989 da Tim Berners-Lee, informatico inglese, ricercatore del Cern di Ginevra. Coltivando l’utopia di creare un mondo del sapere sempre più condiviso e mettendo insieme i nuovi strumenti messi a disposizione da ricercatori come Berners-Lee, negli anni ’90 è nato il concetto di ' wikiweb': una rete fatta di contenuti che possono essere creati, modificati, corretti e migliorati da chiunque. Un progetto realizzato per la prima volta nel 1995 da Ward Cunningham, programmatore statunitense, che si ispirò alla parola wiki , la prima che sentì atterrando ad Honolulu, nelle Hawaii, quando gli venne indicato un wikibus, autobus che collega i terminal dell’aeroporto, e che probabilmente è solo una trasposizione della parola inglese quick , 'veloce'. E veloce fu l’espandersi di questo metodo collaborativo di scrittura, basato sul presupposto che più ampia è la collaborazione, più certa e sicura è l’autorevolezza dei testi, perché grazie agli occhi e alle conoscenze di migliaia di utenti gli errori, inseriti appositamente da vandali informatici o frutto di sviste, possono essere corretti velocemente. Il meccanismo certo non convince tutti, anche perché crea una democrazia del sapere che non sempre è sinonimo di verità, visto che non sempre la maggioranza è garanzia di autorevolezza. Ma sta di fatto che il wiki ormai è una realtà affermata: la sezione in italiano del sito Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa, conta ormai più di 750 mila voci e viene consultata quotidianamente da milioni di utenti. Ombre sulla difficoltà di verifica dei contenuti a parte, al progetto viene riconosciuto lo sforzo di rendere tutti gli utenti partecipi e questo non accade solo attraverso la scrittura delle voci, ma anche attraverso i dibattiti, spesso accesi, attorno a modifiche alle voci stesse. L’unico dibattito noto su Wikileaks , invece, fu quello se pubblicare il primo documento segreto o meno: non era verificabile, ma si decise di diffonderlo, convinti della bontà della 'mano invisibile' sottostante al meccanismo del wiki. Resta il sospetto, però, che questa mano non sia poi così invisibile.
Se il cambiamento sarà in meglio o in peggio saranno i posteri a giudicare, ma appare chiara ormai la potenza del ' wiki '. Tutto corretto, peccato che il sito dell’australiano Julian Assange e dei suoi innumerevoli e ignoti collaboratori conservi davvero poco dell’idea originaria del wiki , ovvero della costruzione collaborativa di contenuti e saperi. I documenti diffusi da Wikileaks , infatti, non sono testi scritti dagli utenti del sito stesso ma provengono da fonti ufficiali e l’unica modifica cui sono andati incontro prima della pubblicazione è stata l’eliminazione di alcuni dati considerati inutili per i fini di Assange. Se una 'truffa', insomma, può essere addebitata all’attivista è quella di aver immeritatamente apposto al proprio lavoro un aggettivo, wiki , che ormai in Rete è sinonimo di conoscenza libera, sempre migliorabile e davvero collaborativa. L’unica collaborazione che si può intravedere nel progetto di Wikileaks , invece, è quella finalizzata alla distribuzione più capillare possibile e alla salvaguardia dei dati segreti raccolti. La scelta del nome, forse, nasce dall’esigenza di dare una patina di nobiltà (almeno agli occhi degli utilizzatori di internet) a un lavoro tutto orientato alla fuga di notizie, come ben specifica la parola ' leaks ', che in inglese significa 'crepe, debolezze' (e quindi può essere inteso anche proprio come 'fughe di notizie'). Vale la pena, però, approfondire il concetto di wiki per capire perché i leaks di Assange con esso non abbiano nulla a che fare.
Nel perpetuo sforzo della diffusione della conoscenza, cresciuto accanto all’ideale classico di democrazia, la proposta cristiana ed evangelica ha fornito una sintesi innovativa tra condivisione del sapere e sua autorevolezza. Da un lato, infatti, si fonda sulla necessità di un annuncio diffuso a «tutti i popoli della terra», cui si aggiunge l’idea di comunione e condivisione di un ' sensus fidei ' che è patrimonio di tutti ed è parte fondamentale dell’identità comunitaria; dall’altro mette a garanzia dell’autorevolezza del sapere la sua forma e il suo riferimento trinitario. Il mondo moderno, forse, ha sempre fatto fatica a conciliare il sapere costruito dal basso con le necessarie garanzie di autorevolezza. Difficoltà che si sono mostrate in tutta la loro pericolosità nel XX secolo. Nel campo della tecnologia informatica l’utopia di un mondo costruito su una conoscenza condivisa è motore primo di ogni innovazione e non è certo internet ad averla inventata. Nel 1932 Vannevar Bush (1890-1974), scienziato statunitense, immaginò una macchina in grado di ordinare tutte le conoscenze scientifiche, facilitando le ricerche e le annotazioni personali e tenendo memoria dei percorsi esplorativi all’interno di questo sapere.
Il 'Memex' (da 'memory expansion') era talmente futuristico da non poter essere realizzato nemmeno nel 1945, anno in cui Bush scrisse il saggio As we may think («Come potremmo pensare»), viene considerata come l’antenato degli ipertesti, cioè quella modalità di connettere i testi tra loro attraverso parole chiave che è alla base della Rete. La parola ipertesto di fatto risale al 1963 e si deve a Theodor Holm Nelson, sociologo e filosofo statunitense, che lavorò per trent’anni al progetto 'Xanadu': un mondo virtuale in cui il lettore può fruire dei testi in modo 'tridimensionale' e mai legato a percorsi rigidi.
Il progetto non decollò mai perché fu superato dal più semplice World wide web ('www'), inventando nel 1989 da Tim Berners-Lee, informatico inglese, ricercatore del Cern di Ginevra. Coltivando l’utopia di creare un mondo del sapere sempre più condiviso e mettendo insieme i nuovi strumenti messi a disposizione da ricercatori come Berners-Lee, negli anni ’90 è nato il concetto di ' wikiweb': una rete fatta di contenuti che possono essere creati, modificati, corretti e migliorati da chiunque. Un progetto realizzato per la prima volta nel 1995 da Ward Cunningham, programmatore statunitense, che si ispirò alla parola wiki , la prima che sentì atterrando ad Honolulu, nelle Hawaii, quando gli venne indicato un wikibus, autobus che collega i terminal dell’aeroporto, e che probabilmente è solo una trasposizione della parola inglese quick , 'veloce'. E veloce fu l’espandersi di questo metodo collaborativo di scrittura, basato sul presupposto che più ampia è la collaborazione, più certa e sicura è l’autorevolezza dei testi, perché grazie agli occhi e alle conoscenze di migliaia di utenti gli errori, inseriti appositamente da vandali informatici o frutto di sviste, possono essere corretti velocemente. Il meccanismo certo non convince tutti, anche perché crea una democrazia del sapere che non sempre è sinonimo di verità, visto che non sempre la maggioranza è garanzia di autorevolezza. Ma sta di fatto che il wiki ormai è una realtà affermata: la sezione in italiano del sito Wikipedia, l’enciclopedia collaborativa, conta ormai più di 750 mila voci e viene consultata quotidianamente da milioni di utenti. Ombre sulla difficoltà di verifica dei contenuti a parte, al progetto viene riconosciuto lo sforzo di rendere tutti gli utenti partecipi e questo non accade solo attraverso la scrittura delle voci, ma anche attraverso i dibattiti, spesso accesi, attorno a modifiche alle voci stesse. L’unico dibattito noto su Wikileaks , invece, fu quello se pubblicare il primo documento segreto o meno: non era verificabile, ma si decise di diffonderlo, convinti della bontà della 'mano invisibile' sottostante al meccanismo del wiki. Resta il sospetto, però, che questa mano non sia poi così invisibile.
«Avvenire» del 12 dicembre 2010
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