Moralità, non moralismo
di Francesco D'Agostino
Ora che finalmente ci si sente meno condizionati dall’attualità, dato che si è (almeno parzialmente) conclusa la vicenda del voto di fiducia al governo Berlusconi, è possibile tornare ad aprire una seria riflessione sull’' etica pubblica' e sulla sua attuale, profonda crisi. Colpisce quali e quante riflessioni siano state dedicate a questo tema nelle ultime settimane e a tanti diversi livelli (dagli editoriali alle interviste sui giornali, da opere saggistiche a conferenze nelle scuole, dalle omelie a lezioni e seminari universitari). Colpisce indubbiamente il tono nostalgico con cui alcuni partecipanti ad appassionati dibattiti hanno ricordato epoche della vita politica italiana, generalmente etichettate come quelle della Prima Repubblica, ritenendole politicamente ben più nobili dell’attuale (epoche che, a chi le ha davvero vissute, appaiono invece molto meno limpide di quanto non si voglia far credere). E colpisce soprattutto il moltiplicarsi delle 'invettive': e, si sa, l’invettiva è l’anticamera del moralismo, cioè della peggior deformazione che si possa immaginare dell’autentica moralità. È per questo che chi, come noi, crede profondamente nell’esistenza e soprattutto nella necessità dell’etica pubblica ha il dovere di dissociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’adeguata consapevolezza teoretica.
L’etica pubblica, infatti, è esigente. È esigente almeno sotto tre profili. In primo luogo, chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale.
Secondo profilo, peraltro strettamente connesso al precedente. Non è possibile tematizzare l’etica pubblica se si separa radicalmente, come oggi va di moda fare, il diritto dalla morale o se si riduce il diritto a mera procedura formale, moralmente neutrale. Con questo non s’intende dire che ci sia sempre un’assoluta coincidenza tra diritto e morale, dato che è evidente che molti comportamenti privati, pur moralmente condannabili (ricordiamo l’esempio classico della golosità) non avendo rilevanza sociale sono da ritenere giuridicamente irrilevanti. Se però tra diritto e morale si pone un rigido steccato, secondo gli insegnamenti delle principali correnti del positivismo giuridico, arriviamo rapidamente all’atrofizzazione etica della vita sociale, in tutte le sue dimensioni. Esempio eclatante è quello del deficit di etica che sta contrassegnando l’economia in questi ultimi anni in contesti giuridico-formali pensati come puramente funzionali; un deficit che ha prodotto non solo la crisi finanziaria che tutti conosciamo, ma una vera e propria crisi morale del capitalismo, da cui non si sa esattamente come si potrà venir fuori. Il terzo profilo è probabilmente quello decisivo, per chi abbia davvero a cuore l’etica pubblica. Si tratta di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo 'pubblico'. La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma 'il potere', per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è 'pubblico' a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione 'etica pubblica' resterà vuota di senso, per quanto possa apparire a molti irrinunciabile e affascinante. Non è l’etica pubblica ad avere un valore in sé, bensì gli esseri umani: e questo loro 'valore' è davvero un assoluto non negoziabile.
L’etica pubblica, infatti, è esigente. È esigente almeno sotto tre profili. In primo luogo, chi crede nell’etica pubblica non può non credere alla sua assolutezza: non è possibile, infatti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tempo cedere a tentazioni relativistiche. Se l’etica è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte etiche siano plurime e insindacabili, non si vede perché non debbano essere parimenti plurime e insindacabili le scelte etiche pubbliche. Per criticare come immorali le scelte pubbliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo etico corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono ammetterlo) la vita individuale.
Secondo profilo, peraltro strettamente connesso al precedente. Non è possibile tematizzare l’etica pubblica se si separa radicalmente, come oggi va di moda fare, il diritto dalla morale o se si riduce il diritto a mera procedura formale, moralmente neutrale. Con questo non s’intende dire che ci sia sempre un’assoluta coincidenza tra diritto e morale, dato che è evidente che molti comportamenti privati, pur moralmente condannabili (ricordiamo l’esempio classico della golosità) non avendo rilevanza sociale sono da ritenere giuridicamente irrilevanti. Se però tra diritto e morale si pone un rigido steccato, secondo gli insegnamenti delle principali correnti del positivismo giuridico, arriviamo rapidamente all’atrofizzazione etica della vita sociale, in tutte le sue dimensioni. Esempio eclatante è quello del deficit di etica che sta contrassegnando l’economia in questi ultimi anni in contesti giuridico-formali pensati come puramente funzionali; un deficit che ha prodotto non solo la crisi finanziaria che tutti conosciamo, ma una vera e propria crisi morale del capitalismo, da cui non si sa esattamente come si potrà venir fuori. Il terzo profilo è probabilmente quello decisivo, per chi abbia davvero a cuore l’etica pubblica. Si tratta di riconfigurare la stessa percezione di ciò che chiamiamo 'pubblico'. La modernità ha appreso da Machiavelli che la scienza politica non ha per suo oggetto il bene comune, ma 'il potere', per come lo si può conquistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando questo paradigma, in tutte le sue innumerevoli varianti, resterà quello dominante, ogni perorazione per l’etica pubblica suonerà inevitabilmente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come autoreferenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è 'pubblico' a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non semplicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espressione 'etica pubblica' resterà vuota di senso, per quanto possa apparire a molti irrinunciabile e affascinante. Non è l’etica pubblica ad avere un valore in sé, bensì gli esseri umani: e questo loro 'valore' è davvero un assoluto non negoziabile.
«Avvenire» del 18 dicembre 2010
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